Brave new world

Che mi sarebbe piaciuto l’ho capito dall’inizio, da quelle facce così giuste e riconoscibili, dalle loro espressioni, dalle posture, dal ritmo dei discorsi e della sfilata davanti al tavolo dei padroni. Poi esci, alla fine, scossa dentro come se avessi preso degli schiaffi in faccia e non ce la fai a non vergognarti. Ma più ancora che di te, che in fondo, proprio perché irrilevante come sei, riesci a mantenerti ancora una coscienza accesa per quanto non pulita, ti vergogni piuttosto di quel quartiere in cui il cinema da cultmovie sta, di quella top class dai 35-40 (anni? milioni?) in su, tutta schierata sorridente e ciarliera all’aperitivo nello storico caffè dell’elegante piazza, i suv e le smart regolarmente posteggiati di sbieco con trendy noncuranza, sui marciapiedi della zona vietatissima alle auto private.

Il traffico sbuffa e scintilla intorno, pieno di fumi e di fari, di lamiere che immagini taglienti mentre ti infili in scooter fra due file strette strette di auto grosse e cattive, le vetrine ancora accese, il negozio di gastronomia coi prezzi da gioielliere non ha più niente sul banco, basta, la torta di carciofi è finita, figurarsi quella di riso, il commesso, perplesso, sorride. E’ venerdì sera, in città, e per di più c’è il Nautico.

In un mondo che / prigioniero è …

Non metterò più l’anello bello la prossima volta, dà troppo fastidio se devi stare aggrappata alle maniglie posteriori. Con lo scooter il traffico lo dribbli, lo aggiri, lo tagli, ma tutto questo mi fa paura. Però non c’è alternativa alla coda e mi è già buono che lui, comprensivo, non abbia mai provato a contestare il mio rifiuto di attraversare la città con lo scooter in sopraelevata. Al piano terra ho solo tanta paura, all’altro modo mi verrebbe un attacco di panico e sarebbe troppo pericoloso. Anche di questo mi vergogno e, a casa, la cena la preparo io, di corsa corsa e con tanta sollecitudine, per compensare almeno un po’ il mio essere inetta. Se non fosse per lui, se neanche lui fosse all’altezza, per vederci un film ci metteremmo due ore a tornare, in macchina o in bus e treno metropolitano. Se non fosse per lui, nemmeno ci saremmo potuti amare, date le distanze in cui siamo nati.

Perchè non solo dello scooter ho paura ma anche di guidare l’automobile in autostrada. E di fare 400 km in tre ore. Se partiamo, come al solito, al mezzogiorno di sabato, ancora ancora va: mi tolgo le scarpe, metto i piedi sul cruscotto e passo il tempo a farmi affascinare dalla bellezza tremenda degli ultimi TIR rumeni o ungheresi che corrono per arrivare il più avanti possibile prima del blocco. Fin da piccola ho sempre avuto la passione dei camion, anche quando non c’era l’autostrada e beccarne uno sulla statale voleva dire farsi l’Abetone-Brennero a 40 all’ora. Allora lo spauracchio, ricordo, erano i camionisti austriaci, sempre pronti a schiacciare la 600 di papà, con noi a bordo, naturalmente. Certe facce incazzate, certe manone a picchiare sul clacson che Duel di Spielberg, quando lo vidi, mi sembrò semplicemente reale. Ma allora non avevo paura. Guidava papà. Che era stato camionista. Ora  qualche volta ho un po’  paura, invece, anche se guida un altro. E, come dicevo, al sabato ancora ancora va bene. La vera sofferenza è quando capita di partire il venerdì pomeriggio. Come due settimane fa, che correvamo verso Venezia insieme a tutti tutti gli altri. E siamo arrivati che mi chiedevo come avevamo fatto a non morire, e per quale miracolosa combinazione, per quale ossimoro, per quale magia non ci sono così tanti morti in autostrada quanti la pericolosità del posto farebbe statisticamente pronosticare. Perchè se guardi la faccenda da qui, dai terminali dei miei nervi ottici che mandano impulsi solo al mio cervello, a quello che sta proprio dentro il mio cranio, e che è solo mio, beh, ti sembra una cosa da pazzi totali, una faccenda da cocainomani persi che decine di migliaia di persone corrano a velocità che variano dai 120 ai 180 all’ora, tutte quante a distanze ravvicinatissime e spostando la propria traiettoria ogni poco di pochi metri, che diventano rapidissimamente km, in modo da incrociarsi continuamente e non, come sarebbe in fondo un po’ più rassicurante, da andare almeno proprio ben bene paralleli fino in fondo al casello. E che lo facciano spensierati, in automatico, passando il tempo pensando ad altro, telefonando magari, mangiando, ritmando il collo sull’iPod, smanettando nel cruscotto, guardando uno schermo. E’ un film di fantascienza, quello che vedo, una storia da utopia negativa e tutte le volte provo uno sbalordito spavento. Finisco per agognare alle code, come nel traffico cittadino, per riposare i nervi. Perchè so che io sono inadeguata, e va bene, ma se essere adeguati vuol dire saper sopportare questa corsa folle, cosa significa che siamo? Ma meno male, davvero, che lui è all’altezza, altrimenti, semplicemente, non ci saremmo potuti amare.

In un mondo che / prigioniero è …

Arriva sempre un momento, ogni tanto, a periodi irregolari, che faccio il punto e investigo lo stato della mia obsolescenza. Certe volte penso che farei meglio se non buttassi via, come faccio, la maggior parte degli oggetti del passato, se avessi la casa piena di tutte cose, se collezionassi. Potrei così fare del tempo un oggetto. Lo manipolerei invece che farmene sempre e soltanto attraversare, accumulandone i segni addosso e dentro. Mi sentirei più giovane. Invece.

Invece guardo me stessa in questo commercio umano di cui faccio parte da tanti anni con la mia bancarella defilata e mi osservo in relazione a. Sono le mie interazioni a spingermi a farlo: quelle con le voci e le presenze del web, quelle fatte di pure percezioni nel traffico di ruote e asfalto, quelle delle compravendite di beni primari e superflui nelle più svariate gerarchie, quelle con i tanti giovani alieni con cui intreccio ore di giornate di settimane di mesi negli anni.

Ci sono un sacco di ragazzi nuovi, quest’anno, con cui ho e avrò a che fare. Chi sono? Da dove vengono? Cosa pensano ma, più ancora, come pensano? Cosa potrò dare loro e in che modo? Di che cosa, davvero, hanno bisogno? E poi: mi chiedono forse qualcosa? E, nel caso, che cosa? E cosa pensano di sapere di me? Chi sono io, ai loro occhi? Cosa credono di dirmi, alcuni, quando mi raccontano con naturalezza certe tristissime storie?

Quel che so è che non mi stupisce affatto di leggere sul giornale cittadino che un gruppetto di quindicenni della zona, ragazzi normali, come si dice, beccati a rubare e vandalizzare in una scuola elementare in cui si erano introdotti al pomeriggio di soppiatto, hanno reagito al momentaneo arresto esultando tripudianti perchè così l’indomani non sarebbero andati a scuola. Il giornalista sembra un po’ basito nel riportare la notizia ma il suo tono moralistico non mi convince, mi persuade di più che, a quanto dice, a rimanere basiti siano stati i carabinieri che certe reazioni dai “non delinquenti” probabilmente non se le aspettano ancora. Ingenui. E se c’è una cosa che veramente non mi persuade nel film di Loach, non è il suo prevedibile didascalismo, non sono i personaggi a tesi (lo sono tutti, al solito, tranne la protagonista, un autentico motore narrativo) ma è la figura del bambino. Il vecchio regista, così come fa il personaggio del nonno, lo idealizza troppo: in questa fase della nostra mutazione antropologica non c’è alcun bisogno di un giustificato motivo personale come quello che ha Jamie per essere un ragazzino arrabbiato e violento.

In un mondo che / prigioniero è …

La ragazza ha una faccia intelligente, molto. Sa come parlare in classe, è autorevole, sia agli occhi dei compagni che a quelli degli insegnanti. E’ attenta, prende appunti con una postura che mi fa capire che scrive proprio perchè comprende. C’è questo linguaggio del corpo che dice tanto e in continuazione sullo scambio che avviene (oppure no) fra te e loro, la posizione delle braccia, delle teste, le linee degli sguardi. Ci vuole un’attenzione continua per capire che cosa gli stai davvero dicendo, che cosa ti rimandano indietro. E, in mezzo a tutto questo, strettamente, confusamente miscelato, l’insieme dei discorsi e dei silenzi. E tu che cerchi di stendere fili, sempre più spessi, perchè almeno diventino instabili ponti di corde fra il presente e il passato, continuamente cosciente che né l’uno né l’altro sono “nostri”, “comuni”, ma tutto tutto è lontano, lontano, immensamente separato dal qui e ora di ciascuno di loro e che l’unica cosa che davvero ci unisce è questo doppio confronto io/voi-noi/tu, semplificatorio, inutile, eppure lui sì davvero presente, fasullo eppure non falso.

E pensi che anche chi ha circa vent’anni di più, almeno, e ben più parole di loro al suo attivo, partecipa della stessa illusoria separatezza, della stessa incapacità di concepire un “noi” che non sia occasionale, contestuale, transitorio, frammentario, necessario solo se utile. E pensi che Angie, nel film, ha 33 anni ed è ingenuamente feroce, coscientemente capace di avvertire e, conseguentemente, zittire il flusso di pietà umana quando le monta nelle vene e la mina e la renderebbe inadeguata. Nessun “noi” a cui rendere conto. Unico legame, il figlio. L’unica cosa per cui questi singoli sono ricattabili è il “loro” (?) futuro. Ih, che modernità!

In un mondo che / prigioniero è …

Lo fanno tutti”, è la giustificazione di Angie. Ed è questa frase, più che il valore ideologico delle singole parole di cui è composto, a svelare la contraddizione che il titolo denuncia. Che libertà è quella stretta fra, da un lato, l’arcaico ricatto del futuro rappresentato dalla minaccia al figlio – secondo una categoria che si potrebbe definire bioeconomia -, e, dall’altro, una lotta totalitaria omnium contra omnes? Che libertà c’è nel non sentire che puoi scegliere? Che libertà c’è nel non vedere alternativa a ciò che fanno “tutti”? Càpita, volutamente, di fare domande sul futuro, in classe. Ti devi far strada fra sterpaglie di battute, fra i cascami di Simpson maldigeriti e congestionanti, fra ottiche miopi che arrivano al massimo alla partita del finesettimana e astigmatismi che dirottano fuoribordo. Galleggiando sui detriti delle derive arrivi a chiedere se, una volta laureati, in biologia magari, immaginando, accetterebbero di lavorare alla produzione di armi chimiche: la ragazza dalla faccia intelligente risponde soavemente che se non lo facesse lei lo farebbe qualcun altro, quindi sì. E’ un lavoro onesto, aggiunge il suo compagno. I toni sono pacati, beneducati, privi di arroganza e di provocazione, borghesi. Insegno dagli anni Ottanta. Rispondono sempre così.

Son bravi ragazzi, arriva sempre il momento in cui si indignano per gli orrori del mondo, in Birmania, per esempio, anche se non sanno bene dov’è e molti nemmeno cosa stia succedendo. Si indignano anche per la Shoah, non capiscono, non comprendono come sia possibile il nazismo. Provare a spiegarglielo impedendo che, mentre rispondo a una loro domanda/osservazione, si mettano a chiacchierare (a bassa voce, eh, senza disturbare) dell’ultimo videogioco o del prossimo appuntamento al bar è il mio lavoro. Fargli vedere dei film non accontentandomi delle loro prevedibili emozionanti commozioni, pure. Chiedergli se, dati certi presupposti, sia poi così incomprensibile il lavoro di quelli che producevano Zyclon B nella fabbrica accanto al lager, anche.

Che sarà di loro fra dieci anni?

In un mondo che / prigioniero è …

La legge mi costringerà ancora per molto a non permettermi di sentirmi obsoleta. E in fondo è un bene. Essere vecchi sarebbe un bell’alibi, potrei mugugnare o tempora o mores agitando il bastone e chiamarmi fuori. Invece sono obbligata a convivere col nuovo che avanza, che è già qui. Che stringe le ruote a morsa intorno allo scooter a cui mi aggrappo chiudendo gli occhi mentre mio marito sfiora la fiancata di un suv che scarta in sorpasso. Che mi costringe a condividere la sfida alle multe correndo anch’io nella vietata corsia preferenziale. Che mi sorpassa a destra. Che a 180 ti si incolla a 20 cm dal paraurti mentre stai sorpassando un TIR che, a sua volta, ha iniziato improvvisamente il sorpasso di un altro TIR in galleria, uscendo di corsia naturalmente senza freccia. Che ti chiedi se dentro a quel camion polacco ci stanno davvero solo componenti elettronici (per quel che capisci).

In un mondo che / prigioniero è …

Prendo il treno metropolitano, finalmente, dopo forse un anno. E’ stata una giornata miracolata quella dell’altro ieri: ho trovato subito un posteggio alla mia utilitaria blu e proprio vicino alla stazione. L’impulso all’acquisto che mi ha spinto fuori casa senza che potessi resistere non mi costringerà alla coda cittadina del pomeriggio. L’unico dubbio è che Feltrinelli ce l’abbia, quel libro lì, visto che non è il bestseller del momento e neppure un longseller classico e tascabile. E comunque che importa, qualcosa da leggere in treno ce l’ho e sarà un piacere. Sarà un piacere anche non leggere, però, se potrò guardare di nuovo la gente da vicino, che qui a quest’ora e in questo ponente è anche meglio di un film di Ken Loach. E’ per questo osservare partecipante che sono uscita, per l’articolo che ho letto su repubblica e per molti ragazzi che non conosco ancora, per questa mescolanza di lingue straniere che finiscono sempre con un ciao, per questi giacconi cinesi, per questi capelli africani, per questi sparuti indigeni come me che fino a … quanto? vent’anni fa? trenta? eravamo come loro sono adesso. E-sat-ta-men-te, come loro. E mentre ricordo il giaccone di mio padre e dei suoi compagni di turno, e i capelli della panettiera che ha la mia stessa età e che abbiamo fatto le elementari assieme e ci siamo trovate più volte in traghetto verso le vacanze in Sardegna, le passo vicino. “All’Italsider”. Mi dicevano, vedi? È lì che lavora papà! E io che non riuscivo per l’età a vedere tutto quell’enorme complessivo che non mi stava né negli occhi né nella testa, fissavo un punto, sempre quello, ma che non c’entrava niente, un deposito di carta vicino alla stazione e pensavo: beh? e questo che è? che c’è da dire di così trionfante? Ho avuto tempo, poi, però, per imparare a vedere.

Sto guardando di nuovo, adesso, in questo pomeriggio che dicevo miracolato. Fra un’ora circa avrò comprato il libro e, prima, una giacca rossa da H&M e una rebecchina fucsia. Ma, adesso, ancora sto guardando il passare del tempo da vicino vicino, perchè il treno va lento e costeggia quello che non c’è più, anzi no, quel che c’è adesso. L’ho letto sul giornale, che han tirato giù un pezzo d’altoforno, e della scomparsa, mesi fa, dei gasometri dallo skyline mi ero fatta una ragione. Ma, a vederlo così, il tempo che passa, è tutta un’altra cosa. Perchè fuori dal finestrino del treno c’è la sorpresa del vuoto, che ti viene da mettere un braccio fuori e agitarlo, per vedere se ci hanno messo un telone, come in Truman Show. Quello che ti persuade è un particolare che sulle prime sembra assurdo: non la caterva dei detriti, non i residui a montagna della ferraglia e delle lastre d’amianto, non l’orizzonte spinto indietro di centinaia di metri, ma il fatto che le macchine, tutte, tutte, le escavatrici, le pale rotanti, i caterpillar, i cingolati sopramontati dai martelloni pneumatici e perforanti sono nuove. Nuovissime. Di zecca proprio. Non ho mai visto un cantiere con macchinari così, appena smaltati e cromati e puliti. Così grossi. E così tanti. F.lli Baraldi Spa, dicono in bianco su blu. Sono fermi. La giornata di lavoro è finita. Evidentemente non fanno turni. Il nuovo avanza e, senza questa fabbrica, c’è più tempo libero.

Riguardo le magliette dell’est e i giacconi cinesi. Non porterò mio padre su questo treno a vedere le novità dei cantieri, come l’altro ieri che, invece, l’ho accompagnato in macchina a veder nascere un mondo di barche e cemento intorno all’aeroporto, lungo una strada che non c’era quando lui rientrava a casa a piedi dal primo turno. Un conto è veder costruire riempiendo il mare, un altro conto è guardare l’orizzonte dalla dismissione. Ma mi sorprende un calcolo che mi è venuto improvvisamente in testa: mio padre ha lavorato in questa fabbrica per ventitre anni prima di andare in pensione per raggiunti limiti d’età. Non avevo mai pensato alla dimensione che hanno 23 anni, li ho sempre sentiti lunghi una vita intera, per il semplice fatto, mi rendo conto adesso, che l’ho sempre conosciuto così, mio padre, che lavorava lì. E ho sempre pensato che la vita della fabbrica equivalesse alla vita di mio padre. Invece no: è alla MIA vita che equivale. E’ in me che il vuoto del paesaggio solito apre un vuoto. E’ per me che adesso mi commuovo sentendo una mancanza laddove ho sempre visto un pieno. Per me, che, a oggi, lavoro nella stessa scuola da 22 anni.

In un mondo che / prigioniero è …

Ed è così che ho cominciato a leggere questo libro, sul treno del ritorno. A interrogare, tutti insieme, la mia obsolescenza, la mia inettitudine, i miei privilegi e la mia ipocondria. A ragionare, come faccio ogni tanto, a periodi irregolari, su questo commercio umano di cui faccio parte da tanti anni. con la mia bancarella defilata. Su questi vincoli d’età, di sesso, di etnia e di generazione. Su quanto separa chi è precario da chi è privilegiato. L’ho comprato anche perchè mi dica qualcosa che non so , qualcosa sulla mia differenza, qualcosa su questo mondo per me tutto nuovo. I miei “giovani turchi” non vengono a scuola in treno. Molti di loro si spostano in scooter ma dalla strada la dismissione non si vede bene ed entrando, come fanno, alla Fiumara, le voltano le spalle. E poi non conoscono neanche la parola, “dismissione”.

Prima che il film di Loach iniziasse mi sono vista la pubblicità. E’ stato allora che gli ho fatto presente il turbamento che mi procura l’attuale spot della Michelin. E lui se l’è ricordato, che gli avevo raccontato  di come quell’omone di camere d’aria sia stato anche per me, come un poco pure per quel bambino lì, il primo essere sociale al mio fianco, il mio primo contatto col mondo di fuori, mentre me ne stavo protetta dal tavolo di cucina e dalle gambe possenti di mio padre.

 

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12 risposte a Brave new world

  1. caracaterina ha detto:

    occhèi occhèi, questo è (solo) un blog.
    e invece io …
    così mi commento da sola, anzi no, faccio un nodo al fazzoletto. e allargo la sfoglia, la stendo ancora di più, con questo link che, nella mia lettura, si collega a questo post e a quello precedente (eh, sì, troppi punti, come gli dicono nei commenti):

    http://blog.stefanoepifani.it/CommentView,guid,68edc646-8184-4a80-87a8-dee3c065efbb.aspx#commentstart

  2. pessimesempio ha detto:

    Io ho letto, eh, ma sono rimasta un po’ incartata, non ho trovato il filo. Però l’idea di allargare e stendere la sfoglia la trovo proprio bella, un’immagine da jones.

  3. parergon ha detto:

    questa cosa che ti commenti da sola ha fatto spuntare un sorriso dietro il velo grigio e cupo del mio delirio influenzale /
    ti avevo letto ieri, e avevo pensato ai luoghi che cambiano, che spariscono e si inabissano, che cadono su se stessi sotto forma di una montagna di detriti / come dev’essere stato diverso abitare in una città, da bambini, a contatto con realtà così varie /
    il mondo delle fabbriche era per me quello modesto e senza confronti della cartiera, in fondo al paese verso sud, con la sua ciminiera a righe bianche e rosse / si andava da ragazzi a spiare gli scarichi intasati di spuma color ruggine, ed allora la fabbrica era tutta circondata da campi e dietro, dietro c’era il tennis, proprio a fianco del cortile posteriore dove negli anni ottanta sarebbe spuntata la montagna della cellulosa, a incombere minacciosa sui giocatori /
    ora vicino al tennis ci passa una bretella della nuova superstrada e i prati si son riempiti di capannoni e prefabbricati / perfino il greto del fiume, hanno colonizzato / e il piccolo rettangolo “matrimoniale” [due campi, erano] di terra rossa del tennis pare uscito da un racconto di marcovaldo, circondato da quell’ambaradan edilizio di periferia…
    un saluto / P

  4. manginobrioches ha detto:

    l’ho letto, l’ho riletto. è così denso eppure articolato, così fitto eppure così trasparente, così pieno di senso che sono sopraffatta. un commento sarebbe lungo quanto il post, o sarebbe il post, magari all’incontrario (sai, viste da sud le cose sembrano sempre appese, sempre da sotto in su)(da sotto in sud), ma come una retta, ma un po’ circolare, che passa per gli stessi punti, gli stessi nodi (“la mia obsolescenza, la mia inettitudine, i miei privilegi e la mia ipocondria”), lo tempo che corre parallelo e divergente, e non si sa bene come o con che cosa ci attraversi, o lo attraversiamo. e lui sorpassa in curva, ubriaco.
    (dopo post così mi rammento una volta di più perché ebbi una folgorazione, quando incontrai arianna nel labirinto)

  5. gugl ha detto:

    e così ti piace ancora insegnare, vedere la meglio gioventù succedersi di anno in anno, sempre uguale, sempre bella.

    in che scuola sei?

  6. caracaterina ha detto:

    Eccoci qui, a stendere la sfoglia allargandone sempre di più i margini irregolari, oltre i campi da tennis, che mi ricordano quelli che stavano anche loro vicino ai gasometri, dietro al CRAL aperto nella villa settecentesca. Sapete che sotto la collina degli Erzelli dove il nostro governatore è finito soprapensiero contromano, Luigia Pallavicini era caduta da cavallo? Su una stradetta che costeggiava il mare, che è scomparso sotto la fabbrica, che adesso sta a sua volta scomparendo? E che la Fiumara è un centro commerciale ricavato dalla ristrutturazione dei capannoni Ansaldo dove fabbricavano treni e carrarmati? Ci muoviamo e allarghiamo lungo questo perimetro frastagliato e curvo. Una retta, talvolta spezzata, ma un po’ circolare, sì Brioscia, che usi quell’articolo così smagliante, arcaico e perfetto qui e ora, come lo ha usato Dante.
    Niente resta uguale, gugl, nella storia, nè i luoghi nè i ragazzi, tranne nell’illusione. Il tempo attraversa tutto, con traiettorie disuguali per altezza ed estensione, con incroci che si proiettano nelle tre dimensioni e anche in questa, che è la quarta.

  7. pessimesempio ha detto:

    Insomma, chiedo venia:l’ho stampato- son vecchia e non riesco a leggere bene in video- lo sto leggendo ed è bello e chiaro. Non so se dopo avrò da dir qualcosa, ma dovevo fare ammenda.

  8. Orazio ha detto:

    Stasera ho due ore libere. Sono indeciso sul da farsi: vedere il nuovo film di Ken Loach o leggere il tuo post? ;-)

  9. Pingback: e amalgamare bene tutti gli ingredienti « scompartimento per lettori e taciturni

  10. gugl ha detto:

    grazie per la tua intrigante e colta risposta caracaracaterina, e per la tua visita serale in blanc de ta nuque.

  11. costanza ha detto:

    Allora anche tu non hai rinunciato a credere nella relazione con i ragazzi a scuola. Vienici a trovare nel nostro blog.. Ti aspettimao Costanza

  12. Giulia ha detto:

    E’ davvero un post molto ricco di sensazioni e di immagini…Il film non l’ho ancora visto, ma lo vedrò perchè Loach mi è sempre piaciuto. Giulia

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