Othago

Se scrivo del traffico e del tempo, se scrivo di lavoro, di cultura costume e società, di politica e di attualità, se seguo la tivvù andando sul blog corrispondente: allora questo non è più vero.

E il mondo, qui dentro, è il solito, solamente un po’ più largo. Ad esempio, seguire via Twitter l’evoluzione dell’ultima alba del terrore di Mumbai non dà semplicemente la sensazione di stare più vicini all’India, con tutte le conseguenze illusorie o meno, ma dà la possibilità di pensare più in largo, a raggio più vasto. Ma a cosa, però, se non all’esperienza del mondo esterno, così com’è? Non sostengo affatto che queste modificazioni cognitive siano irrilevanti sul piano storico, tutt’altro. Suscitano ipotesi, immagini, scenari. Discussioni, nuove invenzioni, trasformazioni.

Ma se Internet è “solo” questo raddoppiare, triplicare, moltiplicare estensivamente la superficie della Storia non vale abbastanza per me. Se anche posso andare in India a tremare o a Chicago a saltare (faccio per dire, ho un collegamento a pedali che non è neppure una bici ma una cyclette) questo non mi cambia. Non più, ormai. Non alla mia età. Non per i miei desideri sempre nuovi. Non vale l’investimento di ore davanti allo schermo, non vale la perdita di sonno e di riposo, non vale l’impegno a cavare scrittura come sangue da rapa, non vale la cifosi e l’artrosi cervicale e lombo-sacrale, non vale la rinuncia a cucinare per gli amici che, poichè non sono internettiani della prima (seconda, va’, anzi, terza) ora non hanno mai capito nè condiviso e che si sono   ho pian piano allontanato.  Allo stesso modo, in fondo, in cui ho sempre tenuto lontane le persone qui dentro che non hanno mai davvero amato la dimensione virtuale e che hanno fatto sempre di internet una semplice estensione della propria realtà pratica, di superficie, della dimensione, per quanto importante, della socialità. Socievolezza, socializzazione. ‘Nnamo, famo, comunicamo.

Che Internet sia una mega enciclopedia accessibile e universale è comodo e socialmente utile. Che sia un modo per migliorare gli equilibri democratici è plausibile, auspicabile, in determinati casi e condizioni persino realizzabile. Che sia economicamente fruttuoso per alcuni pochi o parecchi fa parte del gioco capitalistico globale. Che sia tecnologicamente stimolante è evidente. Che sia una modalità per fare amicizie e amarsi/odiarsi, chiacchierare e stringere relazioni è innegabilmente piacevole e molto pratico, nonchè civilmente rilevante se dà la possibilità di mettersi in contatto col mondo a quelle componenti della società che soffrono di isolamento, invisibilità, sfruttamento, emarginazione.  Che generi informazione, come si dice, dal basso e stimoli alla partecipazione i chiunque è progressivo e perfino commovente come una rivoluzione.

Ma tutto questo non ha nulla a che fare col virtuale, ovvero con una dimensione ignota, un’esperienza straniante che sa di immersione nell’onirico e rappresenta una condizione fondante di scoperta di sè.  Una forma di ex stasis per niente mistica, ma nemmeno fisica come quelle indotte da esperienze naturali tipo certe session sessuali o procurate da assunzioni di comuni sostanze psicotrope.  Una forma di futuro.

Quella condotta da gente come me, più o meno della stessa età, più o meno con la stessa formazione cartacea messa alla prova di una parola molto meno logos di quanto conoscessimo e non per questo simile a quella orale, è stata una navigazione vagamente ulisside. Molti di coloro che la iniziarono ormai sette-otto-nove decenni anni fa l’hanno abbandonata.  Io, come dimostra l’ostinazione a usare il nick, la maschera dell’inconoscibile e dell’oscurità, continuo, nonostante la bonaccia, e, anche se il paragone, come quello di poco fa, è un po’ troppo elevato e letterario, mi fingo, in gioco serio, un personaggio conradiano, solo che non so bene se sempre giovane capitano in attesa di superare un’altra linea d’ombra o non piuttosto un inquieto Marlow, mai stanco di cuori di tenebra ma costretto alla fonda alla foce del Tamigi.

“E anche questo,” osservò improvvisamente Marlow, “é stato uno dei luoghi tenebrosi della terra”.

Egli era l’unico fra noi che tuttora navigasse; il peggio che si potesse dire sul suo conto era questo: egli non rappresentava affatto la sua classe. Era un uomo di mare, d’accordo; ma era anche un randagio mentre la maggior parte dei marinai conducono, se è permesso il bisticcio, una vita sedentaria. La loro mentalità è di tipo casalingo e la loro casa li accompagna sempre: la nave; e così pure il loro paese: il mare. Ora una nave rassomiglia molto ad un’altra nave e il mare è sempre lo stesso. E così, circondati dall’ambiente immutabile, le coste straniere, le facce straniere, la mutevole immensità della vita … tutto fluisce velato non da un senso di mistero ma da un’ignoranza un tantino altera; perchè per un marinaio nulla risulta misterioso, se non il mare, che è l’amante della sua esistenza, inscrutabile come il Destino. Per il resto, dopo le sue ore di lavoro, una breve passeggiata a terra e qualche ora di baldoria gli sono sufficienti per svelargli il segreto di tutto un continente, segreto che generalmente non gli sembra tanto interessante. Le storie che raccontano i marinai sono di una semplicità diretta, il cui significato si può mettere in un guscio di noce. Ma Marlow, l’ho detto, non era l’uomo di mare tipico (a parte la sua tendenza a raccontare lunghe storie) e per lui il significato di una storia non si trovava, simile ad un gheriglio, dentro il guscio ma al di fuori; era un significato che avvolgeva la storia, che emanava da essa così come un bagliore diffuso emana da un fuoco o, meglio ancora, come uno di quegli aloni tenui che si vedono intorno alla faccia spettrale della luna.”

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Una risposta a Othago

  1. pessimesempio ha detto:

    Non lo so. Io ho una strana impressione, che non riesco neanche a focalizzare bene, a dirla tutta. Che, almeno per me, sia finita questa navigazione. O almeno sono in secca e non ho voglia di mettermi lì a disincagliare la nave e sto aspettando che la marea risalga, al diavolo ‘ste barche. Magari è solo un’impressione.

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