La vita in diretta

Proprio quest’anno che il commissario d’Italiano sarà esterno ho una quinta debolissima. Più che della loro votazione finale (tanto saranno promossi tutti, lo so, quelli che ammetteremo – e sarà lì il momento più triste; comunque, la loro stessa comunissima e deprimente mediocrità sarà quello che li salverà), lo ammetto, sono preoccupata per il mio amor proprio. Per la figura che mi faranno fare, sì. Proprio di questo mi vergogno già, e anche del fatto che me ne vergogno, naturalmente.

Loro se la caveranno, son giovani e impermeabili, faranno le loro brave facoltà scientifiche, consumeranno i soldini di famiglie della Lumpenborghesia con molta inconsapevolezza e qualche modesto senso di colpa. Troveranno un lavoricchio, faranno qualche figlio, se andranno a votare, qualcuno voterà Di Pietro, un paio, forse, PD, molti scheda bianca e parecchi PDL, nessuno Lega, per ora: son tutti anticomunisti, buoni-sentimentalisti, perbenisti, poco poco un po’ razzisti, guardano avanti con gli occhi chiusi e la testolina voltata un po’ qua e un po’ là, attratta da schermi immaginifici e ciechi, che ruotano e ronzano e si muovono con loro continuamente, come l’insegna antinfernale davanti agli ignavi danteschi. Non mi fanno nessuna compassione, anche se comprendo le ragioni di ogni singolo, ne conosco i timori e le fragilità umane, le tensioni e le aspettative. Anche se li aiuto e li guido, ma verso dove? Ormai verso l’unica meta che sembra interessi a (quasi) tutti loro: il sei in pagella. Sono anni e anni che aspirano solo a quello e vengono a scuola per guardare l’albero, un albero dopo l’altro, e mai il bosco, per seguire il dito, un dito dopo l’altro, e mai alzare gli occhi alla luna. Ogni volta che intravedono l’uno o l’altra, scappano a nascondersi. Ne hanno paura. Hanno paura di perdersi, di sgomentarsi, di soffrire, di arrabbiarsi. Anzi no: qualcuno che si arrabbia c’è, e abbaia, ma non alla luna, non ancora, piuttosto cerca di mordere il dito che gliela mostra. Non sentono il bisogno di ideali (non usano mai questa parola, non la conoscono, la sostituiscono sempre con “ideologia”) ma di favole, anche orride magari, però incantate.

Qualche volta, a qualcuno di loro, la vita casca addosso brutalmente: sono quelli che diventano umanamente migliori, ma pagando prezzi altissimi, con mutui accesi da molto molto tempo prima che la loro esistenza finisse quasi in bancarotta. In questa classe di 17 ragazzi è capitato a una sola di loro. A nessun altro è stato mai insegnato sulla pelle che la libertà costa il prezzo di un’ardua necessità. Di una perdita irreversibile, di una rinuncia mutilante. E che tutto questo può anche non essere terribile e mortale. L’enunciazione di principio la conoscono sì, ma nient’altro che quella. Così come sono informati su gran parte delle regole del gioco, di ogni gioco, regole che restano formali catechismi da recitare. La compravendita delle indulgenze è quanto conoscono bene, senza saperla nominare nè definire, nè ricordando di averla studiata e vomitata per un sei, però sono pronti a denunciarla negli altri, mai in “noi”.

Poi li pigli uno a uno e dici, oh, che brava persona! Che carino, che sensibilino, che intelligentino, che impegnatino, che complicatino. Mai che qualcosa riesca a spezzare il bozzolo di questi vezzeggiamenti in diminutivo.

Parecchi fanno teatro a scuola, e imparano la parte. Tutti naturalmente scaricano film, caricano l’Ipod, alcuni filmano lezioni. Più crescono le risorse, meno investono. Li costringi all’economia e diventano miserrimi. Li doti di abbondanza e la dissipano. Fanno tutto quello che gli dici tranne farsi un patrimonio. E non per anticapitalismo innato ma per cecità. Non sanno che senso ha la parola “conoscenza” che confondono vagamente con “informazione”, con “cultura personale”, col “farsi una cultura” da mostrare in pubblico, servisse mai. E, comunque, dovesse servire, semmai un giorno, non certo adesso, al di là dell’utile del sei. La scoperta della conoscenza e della comprensione del mondo attraverso qualcosa di studiato è un’emozione totalmente ignota, di cui nemmeno sospettano. Se la intravedono la prendono per un’entità aliena e ne diffidano a priori.

Non usano la tecnologia, ne sono usati. La esaltano nell’applicazione ma la criticano nella riflessione come i più vieti parrucconi. Smanettano smanettano ma sono tracciabili passo passo, in ogni istante. Il rigore delle procedure informatiche e matematiche li congela e li annoia, preferiscono il “fare”, possibilmente a tastoni e purchè esca un prodotto, anche cialtrone, ma che testimoni che performativi lo sono, alla faccia! Multitaking, non c’è un task in cui raggiungano altro che la sufficienza ma che importa, abituati come sono alla mediocrità di gusti cibi oggetti e visioni. Gli spieghi che il Positivismo entrò in crisi alla fine dell’Ottocento e continuano a usare la parola magica Progresso come mangiano merendine. Credono in generale e in assoluto in ogni genere di Protezione (che bel nome, che bel logo, molto astuto) e sono colpiti da ogni lato senza saperlo. Glielo spieghi e quelli che non si indignano per la rivelazione abusiva si parano il culo.

Non mi fanno compassione, mi fanno rabbia. Mi umilia il loro futuro, il nostro futuro. Mi esaspera la mia impotenza. E mi addolora la loro solitudine. Non c’è nulla che faccia loro da sponda, lì fuori. Stanno ammucchiati insieme come cuccioli su uno straccio (ma di marca) abbandonato. Non si oppongono mai agli adulti, alla famiglia, se non sottraendosi, rimpicciolendosi, rincagnandosi, tentando di nascondersi e di proteggersi fra loro. Ma la loro solidarietà si ferma lì, i momenti di autonomia sono solo quelli dei giochi (talvolta proibiti, naturalmente, e così pateticamente noti) tra fratellini. Giochi-passatempo, giochi-evasione, giochi senza scoperte “utili”, senz’utile e, perciò in fondo, disprezzati, come hanno imparato a fare, da loro per primi. Rivendicati, se e quando, ma senza la forza, la capacità di radicalizzarli, solamente come diritto all’interludio sempre troppo breve.

Se devono uscire nel mondo davvero, però, non possono nè vogliono prescindere dal cordone ombelicale familiare, nè dai limiti concettuali che questo gli impone. Non sanno costruirsi una cultura “loro”, quelli che appartengono anche a qualcos’altro che non sia l’ingurgitante famiglia, appartengono al fidanzato o alla fidanzata, ovviamente già da anni accolto/a in casa come un altro figlio/un’altra figlia da crescere e proteggere nel tiepido lettino, oppure appartengono alla squadra, agli amici del tifo tesserato che rasenta e in qualche caso collima con gli ultras. Qualcuno, da bambino, ha fatto lo scout.

L’anno scorso, parlando del Risorgimento, osai dire che l’inno di Mameli, al di là del significato storico ecc. ecc. , musica e parole, è davvero brutto. Insorsero indignati con reazioni da talk show perchè gli avevo rovinato la gioia di cantarlo alle partite della nazionale campione del mondo. Tre solamente mi guardarono strani e con un lieve lampo negli occhi, senza aprire bocca. Sono tre che suonano in gruppetti.

Non sanno leggere. Dei libri che gli propongo, leggono qualcosa in classe, con me, e poi basta. Prendono nota, però, in genere. Qualcuno, più spesso qualcuna, lo legge tutto, arriva in fondo, e alla fine ti accorgi che non avresti dovuto lasciarli andare da soli fin lì, che si sono persi, e che passando di lì, non arriveranno mai da nessuna parte. Non puoi tutte le volte andarli a prendere uno a uno e accompagnarli e insegnargli a ripercorrere tutta quanta la strada da soli. Li richiami a casa e, insieme, ripartite per un’altra via. La solita. Va bene: sei.

Non leggono mai nessun quotidiano, lo fa spesso solamente qualcuno, che però non va più a sinistra dell’hp del Corriere e che capisci si alimenta in casa, ogni tanto, a tramezzini, Giornale e Secolo XIX. Gli articoli di Repubblica che capita porti in classe sono troppo difficili per loro: non capiscono le parole, non riconoscono i riferimenti anche se fanno capo ad argomenti che dovrebbero aver studiato, per lo meno non li riconoscono da soli, e, in definitiva, non sanno di che cosa questi articoli parlino. Del caso Boffo non avevano mai sentito, ad esempio. Un paio, stupitissimi, hanno scoperto un mese fa che esiste la canzone Meno male che Silvio c’è. La scoperta è avvenuta su Youtube. Va già bene che ne hanno percepito lo squallore.

Non guardano quasi mai la televisione. In molti conoscono i Simpson, in parecchi La vita in diretta. In genere sono i tipi che si risparmiano il Grande Fratello ma quasi tutti anche Ballarò o Annozero che, comunque, quei pochi pigliano a dosi infinitesimali. Su quest’ultima cosa niente di che, forse sarebbe pure sano se, per farsi un’idea del mondo, non dessero semplicemente altro che un’occhiata distratta ai TG di Rai 1 e Canale 5 ma più spesso al TGCom, che è spiccio e ogni tanto riempie qualche filmettino. LA7 molti non la pigliano, perchè col televisore nuovo con decoder incorporato (ce l’ha l’80% della classe anche se qui il digitale terrestre ancora non è obbligato) non so perchè ma quel canale è ostruito. Quelli che la pigliano non la guardano.

Eppure, anche senza saperlo, una sponda la cercano, lì fuori. Quei due-tre più avventurosi vanno su Internet e, guardandosi bene dal seguire le mie indicazioni (e li capisco – che un adulto, e un’insegnante poi, pretenda di colonizzargli anche il virtuale, oltre il già concesso e a tutto il resto, non lo possono sopportare) frequentano chissà che siti beceramente arrabbiati, risentiti, giovanilistici ma non direi alternativi e respirano aria fritta (quella che a scuola avrebbero già saputo essere aria fritta, se si fossero degnati di imparare e non solo di strappare un sei) come se fossero sul Monte Bianco. Poi scendono. L’anno scorso, in quattro-cinque dei più apparentemente svegli hanno voluto fare un filmatino sulla P2, stile Blu Notte, che avevano visto, per lo più su Youtube. Venuto pure benino il CD. Quest’anno, che la si dovrebbe studiare tutti, si scopre che nemmeno gli autori ricordano che cosa davvero hanno fatto.

Giorni fa, alla simulazione del colloquio d’esame, uno ha preteso di improvvisare la sua “tesina” lì per lì e se ne è uscito con una filippica di dieci minuti campata per aria negli argomenti e polemicamente violenta nei modi su quanto tutti i ragazzi conoscano Saviano e non sappiano invece nulla di Beppe Alfano, o, addirittura, di Peppino Impastato (l’addirittura è mio, che gli ho parlato dei Cento passi ma, ahimè, alla loro classe, così restìa alle ore in più, non l’ho fatto vedere, e parlare, lo so, non basta) come se fosse colpa di Saviano stesso, reo di non essersi fatto ammazzare in silenzio e senza protezioni, altresì reo, quando “uscirà”, di potersi godere i milioni “solo per aver scritto un libro”. Che, oltretutto, il piccireddu ha dichiarato di non aver mai voluto leggere. Nè mai lo farà. E sì che lo avevo portato a scuola, due anni fa, mentre lui era laggiù nell’ultimo banco della fila d’angolo, a dormire, per evitarsi la morte di noia e di supponenza a priori. Non è stato possibile cavargli fuori fonti o riferimenti specifici. Nè la discussione è riuscita a prendere una piega più fruttuosa per lui al di là di prediche che ovviamente poco lo convincevano. Son tutte opinioni che ha pensato lui, ha detto, basandosi su discussioni in internet e in giro. E confondeva senza il minimo tentennare fatti e opinioni, si fa per dire, come se nessuno gli avesse mai parlato del loro intreccio e della necessaria distinzione. Un tipico esemplare di democratico dal basso, del tutto impermeabile alle fandonie delle elites e degli insegnanti che rappresentano il potere. Un caso specifico, si dirà. L’altra faccia della mediocrità di tutti gli altri, dico io.

La cosa più difficile da fare a scuola, nelle materie che insegno io, è creare quel circolo virtuoso che li porti continuamente a percorrere i canali aperti fra il passato imparato e il presente vissuto. Ma dove aprire i valichi se il presente non è altro che un’esperienza marmellatosa disgustosa da ingurgitare e il passato resta morto e sepolto in parole che si riesce a stento a decifrare?

The hollow men

L’epoca delle passioni tristi

Riforma Gelmini delle scuole superiori

Questa voce è stata pubblicata in sensori. Contrassegna il permalink.

13 risposte a La vita in diretta

  1. egov ha detto:

    senza parole

  2. pessima ha detto:

    Ora glielo faccio leggere, ogni tanto mi capita di portarli nelle tue stanze.

  3. mauro ha detto:

    chissà che casino!
    Dì loro di mettersi i pattini, pessima, e di non lasciare lattine di Coca in giro

    • pessima ha detto:

      Sono in un liceo, mauro, questi sono educatini. E i pàttini non so a cosa potrebbero servire, per scappare prima? O per te i pattini sono come qui le pattìne? Mi sa di sì. Ma perchè tutta questa attenzione, mica è un salotto buono, questo? E’ un hangar del porto di Genova.

  4. mauro ha detto:

    un santuario della classe operaia, quindi. Massimo rispetto sorella.

    (erroraccio, vero. Noi diciamo pattini ma intendiamo le pattine)
    ;-)

  5. Ciao. Ho letto con molto interesse e partecipazione. Insegno all’Università, a Medicina e la realtà avvilente che tu descrivi la ritrovo anche negli studenti di qualche anno successivo rispetto ai tuoi studenti, quelli che avrebbero dovuto fare la scelta della loro vita ed essere all’università per iniziare a costruire il proprio futuro, non solo di medici, ma di uomini. E’ deprimente vedere il totale disinteresse con cui affrotnano le materie, che, dalle loro parole, per loro appaiono equivalenti e intercambiabili: raramente vedi una scintilla di chi dimostra di avere amato quello che ha studiato (che sarà poi quello con cui avrà a che fare per il resto della sua vita professionale), di volere andare oltre, di essere un individuo pensante e non solo discente. Studiano per passare l’esame, con il minor impegno possibile, studiando gli appunti e senza guardarsi attorno, chè la medicina è anche la realtà che ci circonda.
    A volte mi chiedo come deve essere avvilente insegnare oggi nelle scuole (le mie esperienze in questo senso sono lontane nel tempo): le tue parole ne danno un quadro molto chiaro.
    E’ la prima volta che capito su questo blog: quello che ho letto mi è piaciuto molto e ci tornerò.

  6. azzardoarispondere ha detto:

    Mi chiedo se una volta fosse diverso. Non so, sono troppo giovane per saperlo. Ma cos’é una classe se non uno spaccato di una realtà mediocre? Anche nella vita di tutti i giorni non é affatto scontato trovare persone interessanti, che abbiano qualcosa da comunicare, trasmettere, condividere oltre al pomeriggio in palestra o l’aperitivo al bar dopo tentativi svogliati di aprire un libro. Credo che siano la solitudine, quella ricercata se non forzata da sentimenti d’inadeguatezza, e le reali difficoltà della propria esistenza a permettere all’adolescente di oltrepassare la linea d’ombra, insieme a stimoli, obiettivi da perseguire, prospettive future da conquistarsi con il sacrificio, la delusione degli insuccessi e anche la soddisfazione di qualche risultato. Allora anche la conoscenza acquista un significato, un valore. E’ una generazione oppressa da passioni tristi, senza autonomia ma che le permette di non aver bisogno di fare sacrifici, che non sa di sé e della realtà che la circonda (ma che bisogno ne ha? Chi si appassiona ancora per la politica?), é la fuga da una realtà che non comprende che la pone in una situazione alienata, in una dimensione tutta sua, ma che nella quale, impermeabile, tutto sommato, vive felice.
    Forse é una strategia miope per affrontare uno squallore diffuso, e di cui anche microbi come siamo noi studenti percepiamo.

  7. esterhazy ha detto:

    La ringrazio per questa analisi così appassionatamente lucida.
    Nessun buonismo, nessun pietismo, niente tono apocalittico.
    Malgrado tutto, una grande profonda PIETAS

  8. giovanni ha detto:

    Ho 31 anni, una carriera universitaria fallimentare a Lettere Moderne(ancora 4 esami alla laurea).
    Quando frequentavo il liceo, una volta dissi alla mia professoressa di greco che non mi sentivo “italiano”, che vedevo il mio Paese privo di una propria identità e di valori condivisi.
    La poverina, rimasta basita da tanto ardire, accennando un sorrisetto inebetito, seppe soltanto cercare lo sguardo complice degli studenti più tronfi delle loro certezze patriottiche e calcistiche, e concluse dicendo “come non ti senti italiano? Scusa che lingua parli?…blablabla..”.
    Sapevo di vivere in un mare infinito di banalità, ma da allora ci sprofondai pienamente, perché pensare, riflettere, tentare di interpretare le proprie emozioni attraverso la conoscenza, non serviva a niente. La scuola è un guscio vuoto.

  9. caracaterina ha detto:

    Mi è sempre stato difficile commentare i commenti, perchè non so far conversazione. Alle origini la cosa non aveva molta importanza, adesso che la netiquette del web si è di molto normalizzata sì. Intervengo, perciò, ché non voglio mostrarmi rustica.
    Ringrazio i vecchi (che han detto, poi, pessima, i tuoi educatini ?) e i nuovi. Chi si è azzardata/o a rispondere: sei forse uno dei pessimallievi? No, non dirlo. Non lo voglio sapere davvero.
    Solo una cosa, a giovanni: la scuola è un guscio. Punto.Può essere vuoto o pieno, galleggiare alla deriva o traghettarti da qualche parte. E la conoscenza non fa scoprire mica sempre delle cose belle, anzi. E allora?

  10. pessima ha detto:

    I miei educatini sono rimasti all’inizio sconcertati del fatto che un’insegnante trattasse così i suoi alunni. La prima domanda che è venuta fuori nel silenzio totale è stata: Ma scusi proff, gli alunni di questa insegnate sanno che lei ha un blog? Vale a dire che sono rimasti sconcertati del fatto che un adulto avesse questo ardire, parlasse così, in questi termini della loro generazione. Li ho pregati di commentare di persona, ma non è venuto fuori niente. Le solite argomentazioni dai più attenti, che la colpa non è solo loro, che la colpa è degli adulti che li proteggono troppo, che non pretendono. Il resto, nulla, vuoto. Ma forse sono io che non ce la faccio più, davvero.

  11. caracaterina ha detto:

    Lo sanno che ho un blog ma non gli ho mai dato l’url. Uno dei motivi per cui tengo il nick in rete è proprio questo, non voglio che loro mi leggano, anche se poi, nonostante il nick, sono rintracciabilissima. Ma non credo siano andati a cercare né che leggerebbero: la vita di un adulto non è interessante a quell’età. Questo me lo ricordo bene anch’io.
    Qualche anno fa, in una classe a cui feci aprire a tutti un blog (pochissimi l’avevano allora, e parlo di un 3-4 anni fa, tanto per dire quanto la rete – e come – sia abitata), una di quelli mi sgamò. Una ragazzina vivace, curiosa, simpatica e … alquanto pettegola :) Scoperto che non c’era niente di “segreto”, secondo i loro ingenui e chiaramente orientati canoni, mi abbandonarono al mio destino.
    In fb ci sono praticamente tutti i miei allievi ma non so di cosa parlino (sempre che parlino) perchè non ho voluto chiedere l’amicizia non volendo approfittare del mio anonimato. Magari non me l’avrebbero concessa ma non è detto, forse qualcuno …
    Io credo ancora, fermamente, che ci siano discorsi da adulti e discorsi da giovani e che i territori vadano tenuti separati. Sì, hanno ragione gli educatini: sono troppo protetti. Coinvolgerli in tutto, o quasi (e farsi coinvolgere) non serve a educarli ma a controllarli. Serve agli adulti per non sentirsi esclusi.

    • Cara Caterina,
      mi piace davvero leggerti. Non lo ripeterò più perchè sennò diventa piaggeria.
      Dici bene quando dubiti che su FB parlino. Non vale solo per i giovani, ma in generale si usano tante parole, tramite i più svariati mezzi (più tecnologici sono, più invogliano) senza dire pressochè nulla. sarà che sto diventando sempre più silenzioso (forse zittito dalla realtà che sta vieppiù supernado la mia capacità di comprensione e/o sopportazione) e mi impongo di provare a parlare, ma trovo questo uso sempre più sfrenato di parole a ruota libera assolutamente frastornante. C’è paura del silenzio: forse perchè si rimarrebbe soli coi propri pensieri?

Scrivi una risposta a caracaterina Cancella risposta