Limit-azioni

 E’ che lì a piedi non ci va più nessuno. Di noi, almeno. Arriviamo al massimo fino alla macchina posteggiata al di qua del muro di cinta, quando andiamo alla coop. Però si preferisce non arrivare fino a lì con l’auto. E tanto meno andare a posteggiare là dietro. Laggiù, poi. Solo quando è proprio tutto davvero pieno. Mica per altro, solo per non dover fare tanta strada a piedi che te la puoi risparmiare. E se puoi risparmiare anche l’euro che, per pigrizia più che per generosità, poi lasci dentro, se non riesci a evitare che si avvicini qualcuno di loro a offrirsi per riportare il carrello al deposito. Un euro per quattro passi a piedi, eccheccàvoli! Le rompono apposta, le catene dei depositi vicini alle auto. Sorrido per la vergogna.

Non so mica di chi sia tutta quell’area. Vastata, dismessa, posteggiata dai t.i.r. Magari è di diversi proprietari. Probabile. Il demanio, le ferrovie, il porto, magari. O forse qualche grossa società privata, forse c’è anche qualcosa del comune. Per qualche giorno ho avuto la tentazione di andare a informarmi, nemmeno saprei dove, per via che mi ero messa in mente di fare qualcosa per adottare l’antica fonderia. Un pezzo di storia dell’architettura industriale che mi fa così male vedere che ci crescono le roverelle sul tetto e i malvoni fra le crepe delle modanature. In internet non c’è quasi niente. Bisognerà che faccia anch’io almeno qualche foto.

E poi è tutto quanto dei topi, immagino. E dei balordi, degli sbandati, degli invisibili. Due-tre giorni dopo che ne avevano ammazzato uno, in primavera, sono arrivata fino al grande varco che immette nel cortile della palazzina oltre la cinta. Oddio, non ho fatto un gran cammino, che saranno, trenta metri oltre il posteggio della coop? Tutti su un marciapiede, poi, anche se non ci cammina più nessuno se non di loro, e lungo il muro dello stabile rosa, ancora del tutto ben tenuto, ricoperto di piastrelle che sembra maiolica fino al piano rialzato. Neanche una si è ancora staccata. Infissi, persiane, cartelli d’attenzione. Tutt’a posto. Non è mica poi tanto che l’azienda ha traslocato e il posto sembra pieno di tutti i confort. Altro che baracche e tubi di cemento nel greto del fiume! Una casa. Casa vera. Qui dentro deve starci l’élite della miseria e dell’arroganza. Quei trenta metri sono come un crepaccio sul ghiaccio, una terra di mezzo, uno stargate. A meno di non fare in auto in un nanosecondo la statale, che sfreccia qui, a bordo marciapiede.

Non c’era nessuno nel cortile. Nessuno nessuno. Non più macchine della polizia, dei cronisti, delle tivvù. Non me la sono sentita di andare a vedere se le porte erano sigillate, strisce volanti bianche e rosse non se ne vedevano. Sono stata qualche minuto incantata nel vuoto a fissare mucchi di cartacce, a guardare da lontano qualche auto posteggiata da chissà chi. E’ arrivato uno facendo jogging e si è allontanato verso la ferrovia. Allora qualcuno di noi di qua passa ancora. Non ho fatto l’investigatrice da telefilm. Se pure ho l’anima dell’adolescente che si mette a esplorare non ne ho, non dico l’età, soprattutto l’entusiamo innocente. Il batticuore me lo dà la mia sensata viltà di casalinga e nient’altro. Mi sono infilata all’indietro a fare la spesa.

Ma chissà se se ne erano andati davvero tutti. Se li hanno cacciati o se sono rimasti. Se questi che si danno da fare adesso, qui, fra i carrelli, c’erano già, quando gli hanno tagliato la gola forse per una storia di contrabbando del rame, oppure se sono arrivati dopo. Se è lì che abitano. Quasi casa e bottega a tremila km. lontano. Dice di essere polacco e che il cane si chiama Max. Non so mica se è vera, nessuna delle due cose. L’altro è un poco più d’età ed appena un poco meno grosso. Facce astute e determinate. Il cane è bello, grande e giocherellone, ma non dà confidenza agli estranei. Poi, da oggi, con l’africano nero sono in quattro. C’è anche il magrebino giovane, che è il primo che è arrivato, da quando il marocchino, che ormai controlla il territorio da quasi dieci anni ed è una specie di socio coop ambulante nel posteggio, se n’è andato. Sarà tornato a casa come fa tutte le estati lasciando in gestione fazzoletti e calzini a un giovane conterraneo appena arrivato e supplente oppure ha dovuto abbandonare bottega?

Basta che vada un mattino alla coop per ricordarmi che, davanti al mondo, del mondo non so proprio niente e che non riesco a smettere di essere un’apprendista della vita, in prova da un paio di giorni.

 

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3 risposte a Limit-azioni

  1. parergon ha detto:

    pochi scrivono / nessuno commenta o quasi / agosto è come un guscio di noce vuoto all’apparenza / invece, al margine si muovono defilate figure tutt’altro che insignificanti / uno strano palcoscenico che genera particolari forme di nostalgia ma che alla fine sollecita un’altrettanto peculiare forma di libertà – dagli sguardi e dagli intrecci /
    fortuna però che ancora qualcuno scrive, e scrive bene / la tua genova racconta ed amplifica il vacuo agostano, le sue atmosfere metafisiche e sgretolate /
    un saluto [vado a trieste] /P

  2. caracaterina ha detto:

    oh, trieste. per me l’occhio gemello di genova, quello col monocolo applicato. mi piace moltissimo quel mare ispido, la gente che prende il sole distesa sugli scogli dei marciapiedi, i monti così precipitevoli nell’acqua, più precipitevoli che qui.
    la rete agostana che descrivi mi piace molto, anche lei.

  3. parergon ha detto:

    …ma ho preso troppo sole, e come un’aragostina vago bollente e carica di nostalgie per le stanze deserte di una città senz’acqua / eh

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