La solitudine del teacher

Sto affogando dentro alla turbinante preparazione all’esame di due quinte ma sono fatti miei (e pure loro, delle due quinte, dico) e non ne parlo.

Sto affogando pure dentro alla solita altra attività perchè la scuola non è mica fatta solo dalle mie due quinte (ci sono anche i bambinelli di prima, per dire, e le loro piccole inconsapevoli e periclitanti fatiche). Ma sono fatti miei ( e pure loro, dei bambinelli brufolosi) e non ne parlo.

Poi ci sono i dettagli. Che ti colpiscono di sbieco, saettanti come zanzare mutanti e minuscoli pappataci  che con questi effetti climatici planetari manco li puoi considerare come sintomi e ne ignori i piccolissimi ponfi.

Però ti gratti. Anche a distanza di giorni, anche quando nemmeno riesci più a vedere il segno della micropuntura.

Ed è lo stupore del diciannovenne sprovveduto, che ha appena finito di recitare la sua parte nel saggio finale, messo alla pari dell’attore professionista che gli ha insegnato tutto quell’inizio di mestiere. Un canto dell’Odissea, il secondo. “Ma prof, – chiede alla collega d’inglese che ha fatto le sue osservazioni  dopo scena – pure lei la conosce, l’Odissea?”

Allo sgomento segue la risata un poco sghignazza, in un tentativo consolatorio che cerca alleanza nel racconto dell’aneddoto ad altri colleghi che non erano presenti. Tutti noi insegnanti ci scambiamo di continuo barzellette del genere, nei corridoi, rinunciando oramai a darci reciproche pacche sulle spalle. Come quando si muore di caldo e si guarda scioccamente di continuo il termometro, senza riuscire a smettere di misurare la nostra impotenza. Dimenticando si passa oltre. Sono arrivata agli anni Settanta, per dire. Del XX secolo.  Quasi tutti ignorano quasi tutto. Mi faccio aiutare dalle videocassette dell’istituto Luce. Al loro sgomento di adulti nuovi di zecca non segue nessuna risata consolatoria. Meno male. Mi affanno a spiegare, raccontare. A mostrare la gromma spessa che sta sotto il tappetino dell’oggi.

Ma quella domanda sprovveduta e pappatacia mi lavora. Non è ignoranza semplice, quella.  Non è qualcosa a cui porre riparo soltanto studiando. E’, piuttosto, la pioggia dura postatomica di un mondo di frantumi, cascami e polveri di residui di briciole di reliquie. E’ perdita di ogni senso di condivisione anche minima di minimi saperi comuni. E’ cancellazione delle tracce che conducono un gruppo qualunque di ragazzi qualunque alla cognizione di una soglia. Non c’è più quella specie di portale invisibile, di cui ancora la mia generazione aveva non un’immagine chiara ma una inconsapevole idea, e che, superato, immetteva in una comunità di adulti con una loro qualche tradizione – una tradizione da disintegrare, sia ben chiaro, da distruggere alle fondamenta, certo, ma proprio perchè esisteva.   

Mi affanno a disegnarglielo nell’aria, quel portale. Sfrutto ogni angolino di vecchie foto che capitino loro fra le dita.  Fabbrico fili con avanzi di stoppa consumata e marcia, pur di orientarli.

Da ogni pezzetto di puzzle rimasto incastrato sul fondo dei loro cassetti, cerco di aiutarli a disegnare un’immagine di un bosco autunnale. Ma come si fa a descrivere il rosso virante di una foglia a un cieco nato? 

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53 risposte a La solitudine del teacher

  1. pessimesempio ha detto:

    Si può, si può descrivere un rosso… com’è? virante di una foglia a un nato cieco. Perchè il nato non è cieco, in realtà, ha solo una sottile membrana sugli occhi. In alcuni è ormai resistente, quasi cornea, ma in altri è ancora sottile e si può anche assottigliare piano, fino a farla scomparire del tutto, a mostrare occhi chiari, quelli di un neonato forse. Non sappiamo quali siano tra quelli chi abbiamo davanti i mutanti senza membrana dura, a volte non arriviamo a vederlo, che si è aperta. Possiamo solo immaginarcelo e credo sia questo il senso di chi ancora fa questo lavoro con passione. Perchè per descrivere il bosco autunnale, per volerlo descrivere, e non il grigio della città, occorre passione e una sorta di fede, oserei. Per quel che ho detto prima. Che come tutte le fedi, ha i suoi sbandamenti, i suoi momenti di oscuramento e tenebra, i suoi lamenti di giona. Ma rimane, almeno in me.Forse è tutto un delirio di onnipotenza, però. A volte penso anche questo, che è l’esatto contrario.

  2. pessimesempio ha detto:

    Su tutto il resto, i portali e i cambiamenti generazionali, sono d’accordo, ovviamente. E ci ragiono spesso sopra, in solitudine, come spesso capita a certi insegnanti, senza mai arrivare ad una conclusione certa.

  3. caracaterina ha detto:

    Faccio questo lavoro come un lavoro, non come una missione. Per me la parola lavoro ha il significato di un’attività di costruzione,in senso lato, di cui si è comunque responsabili. Un significato obsoleto. Non mi è mai venuta in mente, pensando al mio lavoro, la parola “fede”. Forse, piuttosto, fiducia. Più riduttivo ma anche più relazionale, mi sembra. Non mi preoccupa tanto l’antieconomicità del mio lavoro (sia nel senso puramente monetario – sebbene abbia una fondamentale importanza in termini sociali – sia in quello di rendimento ottenuto a fronte di energie e tempo investiti) quanto piuttosto, come scrivo nel titolo, la sua solitudine. Non si costruisce un legame fra questi ragazzi e la comunità sociale se la comunità non c’è e c’è invece solo un’accozzaglia di individualità frantumate.
    Si chieda ai ragazzi, li si ascolti; se non ci si fida delle inchieste socio-giornalistiche, si parli con loro: la maggioranza stragrande ha un valore sommo e quasi unico, la famigghia. Persino gli amici sono meno importanti, a dispetto delle apparenze (che a quanto pare ci tengono molto a salvare). Non “sentono” nessun’altra comunità di adulti o di pari capace di far loro da sponda lungo la cengia in salita su cui si avventurano. Solo la famiglia. Quella di sangue, poi. Che spesso è più smarrita di loro.
    I nostri ragazzi sono nati ciechi, lo ribadisco. Ma non nel senso che non abbiano certe capacità o sensibilità. Moltissimi, individualmente, sono capacissimi, sensibilissimi, ricettivi, attivi. Ma sono stati orbati a priori. Per questo parlo di una situazione postatomica. Non hanno più possibilità di appartenere a una comunità in grado di orientarli come generazione. Miagolano nel buio come diceva Guzzanti di chi cerca Quelo. E sempre più spesso, lo vediamo nelle piazze, a Quelo si affidano, e a chi glielo indica.
    Uno dei motivi, a mio avviso,(non certo l’unico) per cui la chiesa cattolica in questo momento storico sta tornando ad avere questa preoccupante presa sulle coscienze di tanti italiani sta nel fatto che sa vantaggiosamente (per chi?) collegare l’idea così diffusamente sentita che la famigghia sia la depositaria della capacità di orientarsi, con la possibilità di creare un senso di appartenza a una collettività più grande, di massa. Il che è necessario a ogni individuo per non smarrirsi o per non soffocare.
    Non sto rimpiangendo tempi e valori antichi, nemmeno quelli solo un poco vecchi. Sto dicendo che abbiamo una responsabilità come generazione, e come laici. La scuola non può essere la sola agenzia laica (finchè dura) a cercare (finchè ne ha le forze) di progettare e rappresentare una soglia, un passaggio per entrare in una comunità più vasta.
    E della necessità di una soglia sono convinta, come sono convinta che oltre la soglia ci debbano essere sentieri. La società laica e persino relativista può essere liquida quanto si vuole: anche nell’oceano si possono disegnare rotte, anche nello spazio. Anche nel deserto. Ma bisogna saper immaginare traiettorie e fare carovane.

  4. caracaterina ha detto:

    Ah, giusto. “un passaggio per entrare in una comunità più vasta”, in effetti, esiste, ben più importante della scuola: è un passaggio in tivvù.

  5. Effe ha detto:

    e però, però,
    io so, copiandio le parole, che esiste l’identità, e l’individuo.
    Che la democrazia (dico: il nostro modo di vedere il mondo) esiste perché esistono gli individui, non perché esiste la comunità.
    La comunità porta invece alla rigidità, alla struttura, alla monarchia, alla teocrazia (anche in senso figurato)
    Capisco l’importanza del simbolico, del rito di passaggio.
    Ma invece, io credo che i ragazzi, terminata l’età giovanile, dovrebbero poter dire: finalmente sono un individuo, indipendente, sufficiente, responsabile a me stesso.

    ma io vorrei sapere di quello studente, quello senza speranza, quello già condannato, e che però, chissà, forse, magari – comprende, ricorda, lo individua?
    Perché se ce la fa lui, se ce la fa lui, allora
    (parlo di speranze, forse di futuro, non so)

  6. pessimesempio ha detto:

    Neanche io faccio questo lavoro come una missione, ma a volte so che lo faccio con passione civica, che è diverso, nella consapevolezza che sto comunque educando e se le parole hanno un senso, bhe, la parola educazione mi pare piuttosto importante. Per dire, non sto facendo la bigliettaia alla stazione e neanche sto pulendo le acciughe, insomma sono convinta che non sia un lavoro come un altro. Quando ho usato la parole fede , l’ho usata a ragion veduta e non per indicare un’acritica credenza in, quanto piuttosto per sottolineare che quella che alcune volte mi sembra di avere è proprio una fiducia che però non ha possibilità di verificarsi e quindi una fede( di cui non so molto) perchè senza riscontri immediati. Quando parlo di fiducia, invece, intendo qualcosa che può essere messo alla prova. Invece nell’insegnamento, se escludi lo spicciolame dei risultati scolastici, non c’è un riscontro sul piano della crescita personale, se non rare volte e più perchè ti incaponisci a vedercelo te che perchè accade sul serio. I ragazzi di oggi. I ragazzi di oggi forse più che di comunità ( di recupero?) avrebbero bisogno di un tessuto sociale, usiamo questa parolona, in cui trovarsi e crescere, con cui confrontarsi e scontrarsi, da rifiutare in blocco o in parte, con cui fare i conti. E questo non c’è. La famiglia diventa bene perchè non c’è altro intorno. Non c’è più altro e gli unici adulti con cui si confrontano sono i genitori, quando va bene, e gli insegnanti, quando va bene pure qui. Io faccio il mio lavoro e il mio lavoro consiste nel confrontarmi con loro, educarli a questo confronto, abituarli a dialogare con un adulto che non è la mamma e quindi non li protegge e non li giustifica, come spesso, ahimè, fanno le mamme (faccio). Un adulto che si incazza con loro se non si impegnano, se non mettono se stessi in quello che fanno, se sono indolenti, un adulto che ha ben chiaro cosa sta facendo e perchè. Io, per quel che mi riguarda, vorrei far capire cosa li aspetta fuori, cosa fuori devono guardare, perchè fuori le cose vanno così e attraverso quali percorsi si è arrivati a questo e in più, vorrei insegnar loro anche a far funzionare il cervello che hanno in dotazione, a sviluppare le sinapsi, a esprimere correttamente e chiaramente poi quello che hanno dentro e quello che pensano, a farsi sempre e comunque valere. Rito di passaggio, soglia, è anche questa, questo creare spazio dentro e fuori. E’ un periodo in cui credo molto a questo tipo di impegno e credo anche nella sua possibilità positiva. Idealista, può darsi.

  7. Filosoffessa ha detto:

    In questo momento non posso aggiungere pezzi al puzzle.
    Solo un istante brevissimo per dire che il tuo post, da “Ma quella domanda sprovveduta e pappatacia mi lavora…” in giù, mi ha dato i brividi e lo sottoscrivo in pieno.

  8. Filosoffessa ha detto:

    Ah, e un altro punto a favore di pessimesempio…

  9. caracaterina ha detto:

    Filosoffessa, quando e se vorrai appoggiare anche tu la tua tessera nell’aria, sarò contenta di seguire il disegno.
    Mi riconosco, pessimesempio, nella tua descrizione del nostro lavoro, perciò, se tu sei idealista, lo sono anch’io. :) Però non credo affatto che questa vita activa sia idealismo. Ci vedo molto realismo, invece. Ma dopo più di vent’anni di realistico lavoro (mi scappa da ridere, i più vecchi fra noi ricorderanno Aristogitone, vero?), dopo tutti questi cambiamenti, non sono più disposta ad accontentarmi del mio onesto daffare e a non tirare per la giacchetta altre componenti sociali. A ciascuno il suo. Proprio perchè il senso di onnipotenza, che è uno dei rischi del nostro mestiere, sia tenuto il più possibile lontano.
    Effe, mi perplimi, come spesso accade. E’ vero, la parola comunità non è la più felice, come ha notato pessimesempio, stracciata, abusata, usurata com’è. Tessuto sociale, sì, ma non ho avuto il coraggio di usarla. Vedi come il sistema di relazioni in cui un individuo è calato (e in cui impara che “individuo” è un valore, sennò in che modo lo può sapere?) è così lasco e mutante che anche trovare una parola che leghi è difficile?

  10. caracaterina ha detto:

    Che poi. Non do mica per così scontato che “individuo” sia quel gran valore. Discuterei, discuterei eccome.

  11. Effe ha detto:

    e discutiamone, non siam qui per questo?
    A men non pare che sia in crisi il senso della comunità.
    Mi pare invero molto forte.
    Troppo forte.
    Così forte che non è possibile ciondolare per strada (dico: condurre la propria vita) senza doversi ri-conoscere in una o più comunità.
    Qui, ad esempio, vedo un call for paper alla comunità degli insegnanti.
    Poi tu hai accennato a una comunità definitissima: il mondo dalla (non della) telwvisione. Ma lo vedi quanti ragazzi ci sono, in giro, che vestono, parlano, e (non) pensano come i personaggi della De Filippi? Sì, che lo vedi
    (che poi: i personaggi della De Filippi sono un topos, in effetti non lo so se esistano veramente, non ne ho consocenza, ma l’espressione credo sia chiara per tutti)
    Pure i telefonini creano comunità, le chiamano tribù, se non sbaglio.
    Moccia è una comunità.
    I Papa boys sono una comunità.
    Servono altri esempi?
    E’ l’individuo che è in pericolo di estinzione, dico io (poi si può ritenere che la cosa non comporti pericolo; per me è una iattura)
    La comunita esiste, più che mai; solo, non quella che vorresti tu.

  12. Effe ha detto:

    (quel “come spesso accade” è imperdonabile, detto tra noi)

  13. untitled io ha detto:

    State parlando due lingue diverse secondo me. Io per esempio effe lo capisco, abbastanza – sarà perché non sono insegnante?
    Chiarisco meglio. A me questi discorsi che ogni tanto – anzi: che quasi sempre – fai partire dal cuore del tuo lavoro, mi affascinano totalmente, perché parlano (perché VOGLIONO parlare) del mondo, delle sue fondamenta. E ogni volta, insieme alla condivisione di certi sentimenti, mi accorgo che questi discorsi, queste esasperazioni tue/vostre (vostre di voi insegnanti), innescano in me una reazione di fastidio incontrollabile.
    Sono stata, per quanto può valere rivelarlo, una prima della classe che ha odiato profondamente la scuola. Ne conoscete, ne hai conosciute tu, persone di questo genere? Siamo le persone che la scuola ha ferito, e sai perché? perché ha preteso di fornirci strumenti semplici con libretti di istruzioni estremamente complicati – e quel che è peggio, quasi sempre desueti.
    Credo che i miei insegnanti siano stati tutti in buona fede. E’ che ogni offerta di strumentazione poggia su una visione semplificata dell’utente. Io non ero un’utente semplice, anche se neppure così complicata: semplicemente, non ero “una ragazza”, e neppure “una ragazza brava”: ero io. Mi rendo conto che la scuola non possa tener conto delle individualità, dovendo render conto a una collettività – ma mi chiedo: specialmente oggi, in quello sbriciolo totale di qualunque sentimento comunitario di cui tu parli, non varrebbe la pena di aprire l’obiettivo su ciascun singolo, e sui modi anche inediti di “collegarsi” che tanti singoli sperimentano per mettersi in relazione fra loro, pure se questo tipo di collegamenti “uno a uno” non crea (lo sappiamo) nessuna “comunità”?
    Era di questo che cercavi di parlare effe? sono stata troppo confusa? Per dire: io non trovo scandalosa la domanda dello studente, e men che meno la trovo una domanda da riderci su. E’ una buona domanda, secondo me. Quasi una sfida, per come la vedo io, nonostante ci lasci sbalestrati. Sono troppo ottimista? se il ragazzo è veramente così cieco, perché a me sembra uno che ci vede benissimo? perché vedo in quella domanda un possibile varco, invece di una chiusura alla quale rassegnarsi? è così difficile rispondere a quel ragazzo “sì, anch’io conosco l’odissea”, e cominciare a parlargli a partire da qui?

  14. caracaterina ha detto:

    sì, anch’io conosco l’odissea è esattamente quello che gli è stato risposto e non si è “cominciato” a parlargli da qui semplicemente perchè si è continuato a parlargli e si continuerà, con lui e con tutti gli altri. a uno e a ciascuno. almeno nelle classi in cui ho lavorato si è sempre fatto così. nella scuola dove lavoro io, che non è tutta rose e fiori ma è una buona scuola, si è sempre tendenzialmente fatto così. ma il discorso particolare (io, la mia scuola, e invece la tua ecc ecc) è esattamente quello che voglio evitare. non per mancanza di rispetto dell'”individuo”, ma perchè impedisce i discorsi, li incista. a parlare di scuola, non solo crolla l’audience, ma accade come con la nazionale, che tutti sanno come si gioca, però è molto meno divertente. perchè un sacco un sacco un sacco di gente della scuola ricorda solo o quasi solo ferite. lo capisco. eccome se lo capisco.
    però. se comunità rimanda a communities, alla de filippi o a sant’egidio, quando non a san patrignano, come chiamiamo quelle aggregazioni che stanno fra l’individuo, la sua famigliola e il resto del mondo?
    sempre che esistano ancora. sempre che si avverta l’esigenza di farle esistere. sempre che non si sia indifferenti al fatto che esistono comunque, queste aggregazioni, e che si legano e poi si sciolgono in nome di un telefonino, di un lucchetto o di una squadra di calcio oppure si consegnano in piazza al potente di turno. se va bene così, allora il mio lavoro non ha alcun senso e il titolo del post è il post stesso.

  15. omniaficta ha detto:

    Secondo me effe (non solo lui) è prigioniero di una mitologia, quella dell’individuo “indipendente, sufficiente, responsabile a sé stesso”. Mi verrebbe da dire che individui non si nasce, si diventa. Ma non si diventa più autonomi, se non nel senso di più strutturati e meno modificabili. La costruzione dell’individuo però non può avvenire che in un mondo fatto da altri, un mondo di linguaggi, narrazioni, idee, comportamenti, relazioni, percezioni ecc. ecc. che vengono prima e che sono sempre un prodotto comunitario.
    Il post di caracaterina illustra un impoverimento di questo mondo, proprio perchè l’appartenenza si è privatizzata da un lato e mediatizzata dall’altro. Certo, un pericolo per l’individuo c’è ma è tutto in questo andirivieni dalla tana alla trappola.

  16. Pingback: Sulla scuola « scompartimento per lettori e taciturni

  17. Effe ha detto:

    Omniaficta (omaggi)
    proprio perché non si nasce individui, ma lo si diventa, non può trattarsi di una mitologia, ma di una prassi.
    E’ ovvio che la prassi avviene nel mondo, e quindi in un sistema di relazioni, e quindi in mezzo agli altri. Anzi, non potrebbe esistere il singolo (la percezione dell’esserlo) se non esistessero gli altri. Il problema, mi pare, è che nel percorso da me-agli altri-a me, cosa che determina l’aver coscienza di sé come individo, ci si ferma a metà, agli altri, alla comunità.

    Sono assai d’accordo, ma assaissimo proprio, con Unts: la scuola, che è una comunità, così come altre comunità, lavora sulla collettività, sul “ragazzo” (che è, questa sì, una figura mitologica), e l’individo scompare a favore dell’istituzione, che probabilmente non è (più) adatta a interpretare il presente, ad accompagnarlo.
    (io non ero il primo della classe – lo so, non ve ne meravigliate – ero uno che guardava sempre il mondo fuori dalla finestra)
    Non sono d’accordo invece sul concetto di sbriciolamento della comunità, a meno che si intenda – e allora sì – che al posto delle più vaste comunità di venti anni fa (che so: la sinistra) ora ci sono delle sottocomunità, più frammentate, ma non per questo meno normative, non per questo meno esclusive.
    Infine, rileggendo Caracaterina e anche il trackback qui sopra, è evidente che il problema qui non è tanto di comuntà, ma di passasggio intergenerazionale.
    Mi pare,, se non sbaglio, e per metterla in opera buffa (mi si perdonerà) che Erica tema di vedere le nuove generazioni come Guzzanti (figlio, per carità) vede l’abriogeno: Abboriggeno, ma noi due, ma che caspita se dovemo da di’?

  18. omniaficta ha detto:

    @ effe
    in questo stimolante confronto sembriamo (forse noi tutti qui, io di sicuro) come su sponde opposte di un fiume che, col suo frastuono d’acque impetuose, c’impedisca di comprendere bene quel che si dice. Capisco male se dico che la tua posizione tende a privilegiare l’individuo? Ecco, io invece penso che l’individuo sia culturalmente sopravvalutato; nella prassi molto meno, sebbene infestata da mitologie rassicuranti. In altre parole, l’enfasi che viene data alla comunità, in alcuni discorsi che si fanno qui, potrà sembrare sbilanciata, ma è invece una necessità. Perchè il passaggio generazionale è segnato da fattori collettivi determinanti, non solo da caratteristiche individuali. Se non si rivolge l’attenzione a questo orizzonte più ampio si rischia di non capire quali sono i cambiamenti in atto e come provare a intervenire per governarli un pochino. O almeno come affrontare una realtà difficile con qualche consapevolezza in più.
    Omaggi.

  19. caracaterina ha detto:

    Uffi uffi… il post di pessimesempio ieri e la chiusa di effe adesso mi fa proprio pensare che non sono riuscita a dire. Ora lo scrivo: io NON ce l’ho con i “ragazzi”. Anzi, io (e non solo io fra i miei colleghi) parlo indefessamente (e ascolto e leggo) per ore e ore al giorno, tutti i giorni, alcuni da anni, ciascuno dei diversi singoli individui di giovane età che la ventura (non simona) mi ha fatto incontrare.
    E’ agli adulti, a quelli della mia generazione, che mi rivolgo. E faccio un appello socio-culturale, nel mio micropiccolo.
    Lavoro in una scuola che ha una struttura aperta, nel senso che è aperta e frequentata di continuo dalle sette di mattina alle sette di sera (e questo da quando esiste, ovvero dal 1985). Fra insegnanti e studenti ci si incontra anche fuori dalle ore di lezione. Se abbiamo da vederci al pomeriggio e finire qualche lavoro (di teatro, di postdiploma, di educazioni varie – sanitarie, stradale, mondialità, tanto per dirne 2-3, – oppure persino di scuola, tipo ricerche, tesine o anche compiti da recuperare perchè, poveretti, sono dovuti rimanere a casa, diciamo così), andiamo tutti quanti a mangiare (verso le due, quando finiscono le lezioni del mattino) e chiacchierare una mezzoretta nel bar della piscina della scuola, un bar che è come una dependance, la cui gestora ha avuto due figli che si sono diplomati nella nostra scuola e uno ci ha pure insegnato come ITP ( e, udite udite, tutto secondo graduatoria, regulèr. Pensate un po’). Costui, poi, ora più che trentenne, anzi più verso i 40 che i 30 (è stato alunno di una mia classe nel biennio)collabora politicamente (partito, circoscrizione) con uno dei miei colleghi, uno che ha poco più di 40 anni ed è stato pure lui allievo di questa scuola; fanno attività politica insieme e attività musical-culturale per il territorio, organizzando concerti, in cui suonano pure. Sono legati alla piccola casa editrice Chinaski che era pure lei a Torino, così come c’era la Gammarò, il cui editore è amico di un mio ex-collega di lettere che adesso è preside dell’antico istituto nautico che, attraverso una sinergia con l’autorità portuale, la regione, la provincia, il comune, il registro navale, il museo galata, ha fatto tornare agli antichi splendori e gli ha fatto cambiare la sede che adesso è al porto antico. E’, il nautico, una scuola frequentata da un sacco di persone di origine magrebina, che domani guideranno i nostri traghetti per le isole turistiche e le navi mercantili che ci portano banane e container, tentando di gareggiare con quelle cinesi. Certo non è una scuola per “intellettuali”, si situa soltanto nel mezzo di un settore nevralgico per la nostra economia. Così come la scuola dove lavoro io, che produce tecnici per la Esaote (fate un giro in gugle, prego) e per la ex marconi ora british communications nonmiricordo, e, nelle sezioni liceali, diplomati destinati per lo più ai corsi di medicina in Biotecnologie (leggi studi e ricerche contro il cancro, l’aids e altre sciocchezze del genere).
    E qui mi fermo con la descrizione e l’esemplificazione(ma solo perchè ho fame e caldo, nonostante la scuola sia aperta per gli incontri di cui sopra, mentre le lezioni ufficiali delle classi che avrebbero il pomeriggio son sospese perchè stanno montando i seggi elettorali).
    Vi convincete, please, che sto parlando in questa nostra rete virtuale(un po’ sgarrupata, invero) da una rete operativa sul territorio che costituisce un osservatorio, se non proprio privilegiato, abbastanza attendibile come esperienza sociologica? E che, se dico che c’è frazionamento (e certo, dicendolo, nemmeno scopro l’acqua calda ma proprio ripeto una banalità che sembra un tramezzino passo), e lo dico con preoccupazione, non sto parlando della tivvù, della pubblicità o delle mutande d&g?
    E non sto nemmeno parlando di quanto studiano o non studiano i ragazzi(pardòn, bando alle categorie: di quanto studia o non studia ciascun individuo dall’identità complessa bla bla e bla bla)o delle capacità o incapacità di uno e ciascuno?
    E nemmeno di quando voi facevate (noi facevamo)il liceo? Magari classico. [Quello che i vari ministri della istruzione, pubblica o no, hanno in mente quando pensano alla scuola. Anche loro pensano al loro, di liceo, su quello si basano e dicono: “La Scuola”. Se poi è privato e religioso ancor meglio (dove credete che sia andato la scorsa settimana, quando è venuto in visita pastorale a Genova, Fioroni? In una scuola pubblica? Naaa…)]
    Volete prendere atto che, se parlo da una rete tipo quella che ho descritto qui sopra, eppure mi sento appartenente a una struttura isolata nella società, e mi rivolgo ad altri adulti dicendo: uhè, e dove siete voi?, magari qualche motivo fondato ce l’ho?

  20. caracaterina ha detto:

    Ops, omniafic, non t’avevo visto. Ora arrivo anche da te. :)

  21. deli-mel ha detto:

    :-) e io arrivo tra non molto, appena ho un po’ di tempo per leggere tutto con calma :-)

  22. untitled io ha detto:

    Io non posso pormi “le domande della scuola” dal di dentro, perché ne sto fuori. Non per questo non mi interessa questo post: mi interessa moltissimo invece perché a me, come ho detto, questo post parla di mondo e di una visione della società. Quindi non parlavo di buona scuola e cattiva scuola, non volevo neppure sollevare il problema, perché non saprei da che parte voltarlo.
    Leggevo ieri sera per la seconda volta “Teoria del Bloom”, di Tiqqun, che è un libro del 2004 e forse già siamo andati oltre. Lì dentro sì, si parla di questo andirivieni “dalla tana alla trappola”, e però anche si accenna a una possibilità nuova e fastidiosa, e cioè al fatto che l’uomo, proprio l’Uomo, si sia messo a funzionare in un modo diverso da quello a cui siamo abituati, e che questo funzionamento non sia l’esito di una specie di catastrofe, ma semplicemente una fase irreversibile dell’evoluzione (o involuzione, insomma cambiamento) della specie. Proprio. Io mi chiedo, di fronte a tali cambiamenti, se la scuola debba ancora porsi un problema di meglio o peggio servire, o non piuttosto il problema di servire A COSA. Mi chiedevo anche, rileggendo “interstizi” di là nel nostro sito di Appunti, come te la sbrogli (tu caracaterina) fra un ragionamento sull’interstiziale e un ragionamento sulle trame portanti della società. Mi chiedevo dove sta il confine fra la caracaterina che scrive e si agita, si svela e si vela in rete (negli interstizi della rete), e quella che si esaspera a scuola. Mettevo tutto questo in relazione coi tuoi due cambi di blog, anche. Mi facevo tante domande, mi chiedevo ad esempio se questo aggrapparci alla rete sia il nostro antidoto al veleno di una visione “risolutiva” della realtà sociale e di quelle che dovrebbero essere le sue basi comuni – visione che certamente abbiamo a nostra volta imparato (dico noi della nostra generazione), ma che ogni giorno cerchiamo di distruggere NON perché le visioni universali debbano andare distrutte tout court (perché così va il mondo eccetera eccetera), ma perché intimamente le troviamo insufficienti a darci ragione di tante cose, di troppe. Mi chiedevo infine perché un post (in rete) che si chiama “la solitudine del teacher”. Perché un post in rete, dico, e non un foglio nella bacheca della scuola, o un comizio agli studenti, ai professori, o una lettera aperta al ministro della pubblica istruzione… Mi chiedevo se la scuola (pur quando moderna e aggiornata e “sul territorio”) non sconti ancora oggi una struttura pensata per altri scopi e per realtà obsolete – ripensavo a “Fiori italiani” di Meneghello per esempio, che parla di una scuola di “soli” settant’anni fa, così terribilmente simile a quella che ha formato noi, cinquantenni repubblicani moderni eccetera. Mi chiedevo anche prima, maliziosamente (ma da figlia del mio tempo, mica solo della mia scuola di allora) se quella professoressa di inglese abbia letto davvero l’Odissea, nel senso di che cosa ne pensa e se se ne fa qualcosa nella vita.
    Mi chiedevo. E mettevo qui le mie domande, non le mie risposte, perché “qui” è rimasto uno dei pochi posti dove nei commenti ci si possono rilanciare domande, anche spinose o un poco troppo appallottolate, e non visioni del mondo, più o meno ben organizzate. Perché “la solitudine del teacher” è un discorso davvero interstiziale, nelle maglie di un tessuto che non funziona per niente (non ovviamente per colpa tua, o degli insegnanti come te, o o delle scuole come la tua). Ed è certo è certo che io non voglio per niente sollevare di responsabilità né “i ragazzi” né le loro famiglie né tutto il contesto che li pasce, ma mi chiedo a chi sia rivolto il tuo grido di dolore, chi dovrebbe insomma riceverlo: è scritto “da teacher” e sembra quindi rivolto ai ragazzi, ma in effetti si rivolge a noi (noi qui, noi che in altri tipi di lavori siamo presi da rabbie analoghe, per l’irriconoscibilità progressiva del panorama che ci vediamo intorno). E noi non possiamo limitarci a un sonodaccordo / nonsonodaccordo: dovremmo anche esser capaci di buttar fuori la nostra inadeguatezza e le ragioni del nostro isolamento, per vedere che cosa se ne può fare (eventualmente) di buono.
    Ora per farne qualcosa di buono, della tua rabbia o del tuo senzo di impotenza, dovresti secondo me spiegarci (e non lo dico per provocarti, ma per sollevarti da quella solitudine di cui parli, se possibile) cos’è che possiamo fare noi che ce ne stiamo fuori della scuola. Chi è genitore e chi non lo è. Chi fa altri lavori e come me non ha nessun rapporto diretto, da tempo, con la scuola. E se il tuo lamento, fatto qui, è diretto verso qualcosa di ALTRO dalla scuola, beh dovresti dirlo. Per non affogare in un discorso di settore, per non dover ricordare continuamente a me (o agli altri che intervengono) “che ne sapete voi della scuola”. Perché è chiaro che non ne sappiamo nulla, ma è chiaro pure che è con noi che stai parlando, non siamo tutti colleghi.
    (E questo è il dramma di parlare a partire dal centro delle proprie competenze: dover sempre saltare l’ostacolo del “tu non sai quello che so io”. Credo che sia difficile per tutti quanti, ma ho la sensazione che per un insegnante sia PIU’ difficile, perché un insegnante lavora con le parole e coi concetti, più di chiunque altro).

  23. caracaterina ha detto:

    Il tuo commento, Unts, è talmente ricco e generoso di questioni grosse e anche diverse che son qui che mi sto chidendo come rispondere.
    Vado a impulso e rispondo un po’ qui e un po’ là alle parole che ricordo come più, come dire, impressive?
    Oppure mi metto a dare una risposta meditata, punto per punto, tutta organizzata come una relazione?
    Oppure ci faccio un post su di un punto, a cui i commenti a seguire, e poi un altro post eccetera e si va avanti per due o tre mesi? :)
    Ora ci penso.

  24. pessimesempio ha detto:

    Ebbè, scusate, ma io mi son segnata queste frasi, da un commento di sopra, perchè mi pare che da qui si possa partire per un luunngoo discorso. Quando ho tempo io partirei anche, se interessa. A me sì.

    1.Mi chiedevo infine perché un post (in rete) che si chiama “la solitudine del teacher”. Perché un post in rete, dico, e non un foglio nella bacheca della scuola, o un comizio agli studenti, ai professori, o una lettera aperta al ministro della pubblica istruzione…

    2.Mi chiedevo anche prima, maliziosamente (ma da figlia del mio tempo, mica solo della mia scuola di allora) se quella professoressa di inglese abbia letto davvero l’Odissea, nel senso di che cosa ne pensa e se se ne fa qualcosa nella vita

    3.E noi non possiamo limitarci a un sonodaccordo / nonsonodaccordo: dovremmo anche esser capaci di buttar fuori la nostra inadeguatezza e le ragioni del nostro isolamento, per vedere che cosa se ne può fare (eventualmente) di buono

    4.Per non affogare in un discorso di settore, per non dover ricordare continuamente a me (o agli altri che intervengono) “che ne sapete voi della scuola”. Perché è chiaro che non ne sappiamo nulla, ma è chiaro pure che è con noi che stai parlando, non siamo tutti colleghi.

  25. Deli ha detto:

    Due tensioni – commento: da un lato percepisco che non si tratta di “nati ciechi” ma di “non ancora aperto gli occhi e forse con danni permanenti” (non me la sto prendendo con nessuno, non fraintendete) Dall’altro: chissà cosa scriveranno nei loro blog riflessivi, fra 20 o 30 anni, questi giovani così poco vedenti? Non credo cose così diverse dalle nostre. Allora: cosa traversa oggi in modo sotterraneo le interiorità di queste persone? (mi piacerebbe saperlo, capirlo, davvero). Anche : cosa noi non sappiamo, non vediamo, che loro vedono benissimo?

  26. Deli ha detto:

    ed ora, dopo aver letto i commenti …
    Avete in mente il film “le invasioni barbariche?”
    Siamo lì, siamo in questa percezione che è cambiato profondamente qualcosa. L’emergenza di altro arriva in frammenti, non in strutture. Arriva in modo eccentrico.
    Aneddoti, che non spiegano ma che arrivano come associazioni:
    § sono quel che si dice una madre single. Ho “accudito” due figli maschi (oggi 26 e 21 anni) da sola, o per meglio dire, senza un altro adulto in casa, da quando avevano 2 e 7 anni.
    Un giorno ho capito una cosa: che il problema dei figli di separati non è “il dolore della separazione dei genitori”. Di dolori nella vita ne arrivano a bizzeffe, occorre accompagnare le persone a situarsi, accogliere. No, il problema di figli di un genitore solo è che non ha un clima conversazionalee altro (in famiglia) che non sia direttamente riferito ai figli. Così i figli non sentono mai la madre (o il padre, nei rari casi) di “cose da adulti” riflessioni da adulti, di tensioni, negoziazioni, punti di vista e cultura da adulti. Ma si parla di : scuola, sport, cinema, tv… quella dei figli. O di scazzi sull’ordine in casa o altro. Per fortuna i miei figli hanno trovato dei luoghi sociali in cui crescere, fuori di casa. Come è giusto che sia. Ma raramente mi hanno sentito parlare in una conversazione del quotidiano, delle cose culturali, politiche, sociali, o professionali, cui tengo. Inoltre, nel crescere i figli sentivo acutamente la mancanza di una responsabilità sociale, collettiva, sulla formazione del loro spirito civico. Si dice ai genitori: i figli sono “tuoi” tu ne sei responsabile (l’unico) e così ci si chiede come mai questi genitori diventano assillanti. “i genitori” di oggi sono stati costruiti socialmente. Così come i giovani adulti. La torre (dei tarocchi) cade, si frantuma.
    § attraversando vari territori culturali, mi accorgo di essere sempre ” a coté de la plaque”. Le possibilità di conversazione comune si riducono, con gli italiani, ticinesi, francofoni, tantomeno con gli inglesi. Ci si sente molto ignoranti. Salvo parlare di poesia, ricette o del tempo. Salvo cercare di cogliere la bellezza ologrammatica del quotidiano (o i suoi sempiterni orrori)
    § qualcosa di nuovo sta accadendo rispetto all’educazione, qualcosa di cui sto seguendo le tracce, di cui non so ancora costruire un discorso. Vi lascio una parte di citazione da un testo di André Petitat (sociologo, Uni Lausanne, pe run mini colloque intitolato “l’education comme insertion dans des relations)
    ” De nombreux sociologues, afin de prendre de la distance à l’égard d’une éducation formelle envahissante –qui essaime un peu partout hors de l’école proprement dite– ont désigné un espace en friche sous-estimé, celui de l’éducation non formelle. (…) Ces louables efforts semblent inviter à un renversement de perspective (…) Le grand défaut de la notion d’éducation informelle est sa dépendance envers son opposé qui lui sert de référence et dont elle reste partiellement prisonnière. Les exemples qu’en donnent ses promoteurs illustrent cette dépendance : savoirs qui passent directement de père en fils, ou de travailleurs expérimentés à novices, apprentissage de la musique dans des familles de musiciens, valeurs et connaissances transmises dans les préaux ou à travers la télévision, etc. : dans tous les cas, on cherche à découvrir la relation éducative, plus ou moins dissimulée ou apparente, comme transmission de quelque chose à quelqu’un.
    Le changement de perspective proposé postule que toutes les relations et interactions comportent des dimensions éducatives et que l’éducation procède par insertion dans des relations et interactions. (…) Que l’éducation procède par insertion dans des relations et interactions paraît valable quelle que soit la forme relationnelle, scolaire ou non scolaire, formelle ou informelle, intentionnelle ou inconsciente. Cette formulation a l’avantage d’abolir la grande coupure anthropologique entre les microsociétés orales (éducation réfléchie en termes d’insertion directe) et les sociétés modernes (éducation réfléchie en termes de préparation à une insertion). Apprendre le métier d’élève consiste précisément à faire l’expérience de l’insertion dans des relations spécialisées et institutionnalisées. (..) Ce changement de perspective est susceptible d’être traduit empiriquement de multiples manières. Au niveau microsociologique, on pourrait par exemple rendre compte de la constitution d’une amitié, d’une relation amoureuse ou encore du changement impliqué par l’arrivée d’un enfant dans un couple en termes d’apprentissage, d’inculcation réciproque, d’élaboration de valeurs communes, etc. Car il s’agit bien ici de microsociétés qui disposent d’une certaine autonomie normative qu’elles ne peuvent traduire en forme relativement stable qu’en misant sur les leviers éducatifs. Il n’est pas exclu que l’on puisse mettre à jour des sortes de stratégies « pédagogiques » de couple, par exemple. Au niveau mésosociologique, on pourrait faire une relecture des rapports du formel et de l’informel à l’intérieur des organisations, analyser la construction et le maintien de la solidarité dans les syndicats et les partis, examiner les crises révélatrices (expulsions, licenciements, mobbing,…), etc. Au niveau macrosociologique, ce sont des phénomènes comme l’urbanisation, le risque, les communications, les mobilités, les politiques étatiques, les inégalités, le multiculturalisme, la mondialisation qu’il faut tenter d’appréhender dans leurs conséquences diffuses et capillaires sur les dimensions éducatives des relations de tous ordres.”

    C’è molto da fare. Ecco, quel che percepisco ora è che c’è moltissimo da fare, dopo aver visto cadere la torre.
    :-)

  27. parergon ha detto:

    sono stata qui ieri l’altro e da allora i commenti si sono moltiplicati!! / senza leggerli tutti per ora, visto il tempo scarso del sabato mattina, ma concorde in linea di massima sugli s-punti del post, mi sento di aggiungere però una postilla /
    al di là dell’evidente ingenuità culturale di chi pone la domanda: « Ma prof, pure lei la conosce, l’Odissea? », mi verrebbe da dire che si tratterebbe purtroppo di uno stupore lecito in moltissimi casi, visto il misero spessore di tanti professori che, pur nella loro diligenza, rimangono di una tristezza e di una noia mortali /
    di per mio son sempre dalla parte dei ragazzi e mi prendo sulla spalle tutte le responsabilità e le colpe che ho ereditato da un sistema scolastico inevitabilmente compromesso /
    forse, come pessimesempio, considero il mestiere dell’insegnante, imprescinidibilmente condizionato da un’aura vocazionale e dall’assunzione di una missione impossibile quanto fondamentale /
    un saluto / P

  28. caracaterina ha detto:

    Penso penso ma alla risposta-relazione rinuncio. E’ il bello della rete, direi. Il bello di leggere i nostri commenti e, insieme, prendere il caffè e guardare un po’ i giornali rimasti indietro, intanto. Anch’io vado a esempi, a suggestioni.
    Ecco, l’apporto di Deli, per esempio, mi aiuta. A certe domande di Unts avrei risposto, d’istinto: adulti, genitori o no, raccontate l’Odissea ai figli. Ma raccontate che per voi (per noi)l’Odissea è Bekim Femiu e Irene Papas, fategli sapere, per caso, informalmente, che è così per un’intera generazione. Anche se non l’avete letta tutta. Anche se non “serve” leggerla. Forse quel ragazzo non si stupirà, allora, che anche l’insegnante d’inglese la conosca. L’educazione informale, appunto, se ho capito qualcosa del francese che non so. La valorizzazione quotidiana e quasi inconsapevole di aspetti di coesione e collegamento fra le cose e le persone. Un altro esempio stupido e persino “elitario”? Non importa che un genitore “porti” i figli a un museo. Basterebbe, se può, che ci andasse da solo o coi suoi pari e lo raccontasse ai figli senza preoccuparsi della loro manifesta totale indifferenza. Al museo il figlio ci andrà con la scuola, magari di nuovo con la stessa manifesta indifferenza. Non importa quanto o cosa il figlio imparerà “formalmente”. Quello riguarda il lavoro della scuola. Ma intanto il figlio percepirà una coesiene, una convergenza. Informale. Questa continua verifica di possibili convergenze, minute, apparentemente insignificanti, lo orienta, lo aiuterà a decidere se seguire o no la direzione indicata, ma intanto ne vedrà una, vedrà un sentiero nel bosco, al posto di non riuscire a distinguere nulla se non pulviscolo e contraddizione e vuoti. Lo so che con gli esempi non si va granchè avanti ma continuo, passo passo. Un altro. La scena è il posteggio esterno alla scuola (è separato dalla strada, aperto ma recintato, siamo fortunati): un padre tutto benvestito in giacca e cravatta accanto al suo Suv sta imprecando e recriminando al cellulare. Capisco che sta parlando col figlio e lo sta aspramente rimproverando. C’entrano delle assenze non giustificate. Un quarto d’ora prima, mentre uscivo dalla scuola per un buffo d’aria in un’ora buca, avevo visto lo stesso padre in attesa nell’atrio accanto alla zona (la nostra scuola è un open space) colloqui coi genitori. Gli passo accanto e rientro a scuola. Un ragazzo di una quarta, in un altro livello dell’open space, sta parlando al cellulare con toni accorati e termini difensivi, di presunte assenze non giustificate. Sono rimasta pietrificata. Il comportamento contraddittorio e ansiogeno di quell’uomo che, nel momento in cui rimprovera il figlio di aver bigiato le lezioni, gliene fa saltare una per dirgli su di tutto parlandogli al cellulare (il cellulare a scuola!) da una distanza di trenta metri, che effetti ha sulla visione del mondo di quel ragazzo?
    Quando Effe parla di individuo, io sento il pericolo di egocentrismo distruttivo “delle regole di una comunità” (!)che l’esempio che ho riportato rappresenta. Temo la degenerazione che l’assolutizzazione di questo concetto (che è storico e costruito nel tempo) comporta e che è sotto gli occhi di tutti. La mia generazione è stata abituata alla minaccia genitoriale: a casa facciamo i conti! Almeno per me questo non significava lavare i panni sporchi in famiglia e nemmeno un’ipocrita convenzione per salvare le apparenze. Significava rispetto per l’ambiente che stava “fuori” della famiglia, a cui si riconosceva un’autonomia e un valore educativo convergente anche se separato.
    Adesso, invece, a causa dell’insostenibile solitudine dell’individuo, e in assenza di altre strutture di mediazione col mondo, la famiglia contemporanea, che si pretende “tradizionale”, con le sue regole irregolari informali spesso disorientanti – beh, sono legami affettivi, cosa ci si aspetta? – pretende di allargare il suo sistema asistematico di relazioni al resto della società.
    Leggo stamattina la prima delle lettere a Scalfari pubblicate dal venerdì di ieri e mi costerno. La signora, che, colmo dei colmi ma anzi no, (vedi da pessimesempio e la questione della bacheca scolastica) è un’insegnante, rivendica la sua partecipazione al family day con il (fra altri ancora più drammatici perchè apparentemente più futili, il costo delle vacanze, ad esempio) seguente argomento: “molte famiglie fanno fatica anche ad arrivare alla fine del mese, a pagarsi il mutuo o a comprarsi una casa o una macchina decente”. Ma una volta non si chiamavano rivendicazioni salariali, queste? Una volta, con discorsi simili, non si andava in piazza per il lavoro anzichè per la famiglia?
    Se la torre del lavoro “collettivo” è caduta, bisogna abbattere definitivamente anche quella della scuola pubblica?
    Sì, Unts: supponendo che il lavoro scolastico sia fatto a “regola d’arte” per quanto umanamente possibile, serve ancora a qualcosa difendere questo spazio di coesione sociale separato dalla famiglia ma con essa connesso, così come è separato dal lavoro ma con esso connesso, formalizzato ma necessariamente aperto ad ogni informalità e suggestione?
    Insomma, interessa l’articolo a cui in tanti stiamo lavorando o non è meglio che, per sbarcare il lunario, ci ricicliamo in animatori del Kinderheim dell’Ikea?
    Che è la stessa domanda che ci si pone, qui e là, quando si tratta di… comesichiama… ah sì, scrittura. Anche cultura, mi sembra.

  29. pessimesempio ha detto:

    Mi pare che l’articolo interessi e molto, anche se il rischio- in rete- è che ognuno vada per conto e la discussione, diciamola così, si frantumi. Non lo so, ma io sono sempre fissata con la storia del dare continuità e senso concreto alle cose. Quando partecipo a queste discussioni in rete – e non solo in rete, anche nella vita “normale”- dopo un po’ mi viene sempre l’impressione di uno spegnersi lento della cosa e allora mi viene da dire

  30. pessimesempio ha detto:

    Il commento mi si è tagliato a mezzo.
    Dicevo che mi viene da dire: sì, vabbè, ma ora come si va avanti? cosa si può fare per fare un passo in più e uscire dalle secche? Che poi forse questo ha un po’ a che fare con una delle tante domande che si poneva nel suo commento untitled io. Insomma a me pare sempre brutto sprecare così tante belle energie e poi fermarsi lì e lasciare che tutto continui come prima.
    Che vi devo di’? sono presa da questi “astratti furori”, a volte.

  31. filosoffessa ha detto:

    “Insomma, interessa l’articolo a cui in tanti stiamo lavorando o non è meglio che, per sbarcare il lunario, ci ricicliamo in animatori del Kinderheim dell’Ikea?”

    L’articolo non so a quanti (statisticamente) interessi.
    Sicuramente ce n’è bisogno.
    Altrimenti si torna alle scimmie.

    Ciao, Laura

  32. db ha detto:

    http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=177025

    è un articolo di Guarini che rovescia da destra carac.

  33. untitled io ha detto:

    Sai, pessimesempio, perché a un certo punto queste discussioni, anche animate, spesso si spengono? Non perché, come dici tu, in questo modo “non si va da nessuna parte”, ma perché procedere in questo modo è faticoso il triplo. E uno si chiede: perché devo fare questa fatica? Una discussione a pulviscoli, in cui ogni intervento non è un’argomentazione ma un nugolo di questioni: questo è il modo discutere qui (e non solo qui), oggi, non ci possiamo permettere di fermarci e dire “era meglio se funzionava in un’altra maniera”, perché un’altra maniera, più lineare, non ci è più possibile, e non ci sarebbe possibile neppure se ci riunissimo a convegno per dieci giorni temo… Io un’argomentazione non so tenerla: mi si sgretola tra le mani, non solo per via delle caratteristiche di una discussione in rete e blabla, ma per via del funzionamento e delle sollecitazioni del mio cervello, oggi. Oggi, se discuto, mi va di non lasciarmi indietro nulla, perché l’occasione di discutere e far emergere al vivo alcune questioni è troppo grossa non voglio perdermela – e così mi metto in ascolto del casino per far casino a mia volta (l’esatto contrario di parergon per esempio, qui sopra, che dice: i commenti non li ho letti perché ho poco tempo ma il post è interessante, quindi tornando al punto…)
    Secondo me, ad esempio, il lungo commento di deli tocca davvero il cuore di certe questioni, anche se ci arriva per una strada diversa da quella che si stava percorrendo (già così poco lineare). Non possiamo ascoltare deli e dirci che non si sta attenendo al tema della scuola perché si è messa a parlare della condizione dei figli di genitori single, mi pare, perché sono proprio questi sbandamenti che ci fanno andare avanti. Se continuiamo a procedere geometricamente e per punti non andiamo da nessuna parte se non dritti a soffocare nel nodo che pretendiamo di sciogliere. Allora alla fine mi chiedo: metterci a ragionare di questa apparente confusionarietà, ha a che fare col problema della scuola? Secondo me sì, ci ha a che fare moltissimo, perché la scuola è incapace di gestire qualsiasi discussione pulviscolare (non geometrica), quando invece di relazioni pulviscolari e non geometriche viviamo tutti. L’esempio del genitore e del figlio che discutono al cellulare a trenta metri di distanza (e da un lato all’altro del confine della scuola) è abbastanza illuminante: caracaterina, un’insegnante, ha ascoltato quella conversazione telefonica, l’ha orecchiata “da una parte e dall’altra”, e in sovrappiù viene a parlarne qui in rete, in mezzo a un gruppetto di persone eterogenee, alcune conosciute e altre no, alcune insegnanti altre no, alcune genitori e altre no, alcune italiane e altre no: se ci mettessimo a discutere di violazione della privacy, per dire, o di linearità di un discorso, o di omogeneità dei disputanti, o di preservazione dei nuclei “sostanziali” di una discussione, sarebbe forse più corretto, ma quanto fatale per la stessa discussione in atto?
    La complessità delle questioni richiede percorsi alternativi, e i percorsi alternativi costano fatica doppia… Questo è un problema che riguarda anche la scuola? Secondo me sì, avoglia che la riguarda!

  34. untitled io ha detto:

    oh: non avevo visto la segnalazione di db!
    Letto l’articolo (non solo l’attrattiva prima pagina,. ma pure la deludente seconda pagina), mi chiedo perché metterla di nuovo in questi termini: “rovesciare il discorso di caracaterina da destra”? ma se stiamo facendo tanto per tenere tutto in piedi senza far cadere niente per terra…

  35. caracaterina ha detto:

    Commento pulviscolare. (Ma qui non si ha paura dei polveroni e c’è un perchè, se riesco a dirlo).
    Nessuno nasce “imparato” all’argomentazione. L’argomentazione è una tecnica che si apprende. Il nostro sistema scolastico old style è tutto incentrato sull’apprendimento-insegnamento dell’argomentazione. Il famoso “ragionamento”, che non è solo saper tenere il filo logico o attenersi al topic. Nè è pura Logica o Razionalità. Ma gli esiti di questo sistema ora come ora sono sostanzialmente fallimentari.
    Cacciamo via l’argomentazione da tutte le scuole del regno, allora?
    Io non mi rassegno a questa soluzione. Non mi rassegno alla totale sostituzione dell’argomentazione con le tecniche della narrazione, della drammatizzazione, della creatività immaginifica, della proceduralizzazione che immiserisce gli apprendimenti scientifici e tecnici. Perchè ho un cotè rigidamente conservatore? Perchè sono sostanzialmente tutta Ordnung und Disziplin?
    Preferisco pensare di no, veramente. Preferisco pensare che, se non conosci e non sai applicare le tecniche dell’argomentazione, davanti all’articolo di Guarini non hai che due strade: o lo sottoscrivi entusiasta o prendi a pugni (anche metaforici, eh) il giornalista. Ah no, c’è una terza via: lo ignori e tiri dritto in splendido isolamento (al massimo con i pari del tuo piccolo clan, famigliola, quartierino, parrocchietta) come se milioni di persone non esistessero. Tante isolette più o meno felici galleggianti in un oceano inquinato e infestato da pescecani. E’ così che ci si rappresenta la rete, in effetti. Perchè non esserne contenti e non ritenerlo sufficiente? (ahi, che parola da prof). In fondo si è già dato da noi un fenomeno del genere. Il monachesimo dell’alto medioevo, ad esempio. La salvezza del convento. D’altronde, sul venerdì non ci sta la faccia dell’uomo più felice del mondo perchè si è ritirato in un monastero buddista? Beh, penso spesso che è un vero peccato che io non sia capace di pensare il nirvana. Ma mai dire mai, però. Forse, un giorno, chissà.
    Forse un giorno tutto il mondo sarà un susseguirsi di conventi virtuali e sarà molto bello così. Ma io vivo adesso e il mio monastero in rete non mi basta.
    (Ma insomma! E sei incontentabile! E non ti basta questo e non ti basta quello!)
    Torno a una delle bombe. E’ che l’argomentazione, così come le altre tecniche del discorso, adesso sono diventate materie specialistiche, le insegnano nelle scuole di marketing e comunicazione e, assai spesso anche lì in modo essenzialmente procedurale. Tanto sono tecniche, no? Ovvio che solo una piccola minoranza, estremamente avvantaggiata e piuttosto ben pagata, sa usarle con consapevolezza. E le usa, eccome!
    L’argomentazione si depaupera in slogan. Oppure si dissolve nella narrazione, che già è politicamente meglio. Perchè è di politica che sto parlando. Ma anche la bellezza della narrazione (e non a caso pigio sul tasto estetico) non permette più di tanto il dialogo, soprattutto se ci troviamo davanti e dentro a narrazioni le più diverse e tutte altrettanto “belle”. La narrazione è una sorta di tecnica continua, di moto perpetuo. Non si percepisce come definita. E se ne frega. Fin che ci riesce assorbe integra accosta fa incontrare-scontrare pezzi di altre narrazioni e tutto senza perdere l’immagine di se stessa. Se i narratori-ascoltatori sono bravi e buoni e hanno tempo voglia e risorse per partecipare al gioco, la faccenda va avanti nell’illusione dell’infinito. Infatti tutto diventa narrazione, nella rete come nelle riunioni del consiglio di amministrazione di un’azienda dove c’è sempre qualcuno che “racconta” un progetto. Nelle interviste ad artisti si chiede di “raccontare”, ad esempio, la tale installazione. Insomma, tutti raccontano di tutto facendo un gran casino e chi la racconta più grossa vince. I più giovani sono immersi in queste frattaglie di narrazioni e non hanno idea di chi racconta che cosa (e l’Odissea? appunto). Ma poi qualcuno si scoccia, batte il pugno sul tavolo e urla: Silenzio tutti! Adesso vi racconto IO com’ è andata VERAMENTE !
    Socialmente e politicamente siamo vicini, a me sembra, a questo punto di rottura. Anzi gli scricchiolii delle fratture si sentono bene. Anche nella rete.
    Noi tutti qui, dentro a questo thread, nonostante la pulviscolarità, riusciamo (con fatica, d’accordo, ma ci riusciamo) a tenere i fili. Perchè tutti (ci piacesse o no, ne avessimo attitudine o meno, con sofferenza o con piacere, che poi spesso pari sono) ci siamo formati all’argomentazione e in modo così sofisticato che i nostri oggetti discorsivi possono divagare fin che si vuole negli argomenti nei toni e nelle modulazioni di frequenza ma sempre teniamo visibili i punti di riferimento. Che sono molteplici, legati in modo differente e su più piani.
    E’ così che noi, con enorme fatica, ancora, riusciamo a rimanere democratici. Anche fuori dalla rete.

  36. PAR3RG0N ha detto:

    ….sempre più intenso lo scambio! /
    nel frattempo ho pubblicato qualche riflessione a voce alta sul blog [http://parergon.splinder.com/] / ma ancora devo metabolizzare molto di ciò che è stato scritto nei commenti /
    buona domenica / P

  37. bri ha detto:

    pensieri sparsi, magari anche confusi.
    mi richiamo a molte suggestioni del post e dei commenti e ne tralascio altre di importanti.
    in effetti la tentazione del nirvana, assale, mi assale.
    l’uomo più felice del mondo perchè ha rinunciato ai desideri, grosso modo.
    o perchè le sue onde cerebrali si sintonizzano su eventi, fatti, sensazioni positive.
    non so.
    Io so solo che mi sono arrabattata (si dice?) tutta la vita a cercare, nel dare, un senso, nel mestiere che facevo, nella vita che conducevo, nei miei affetti, nel desiderio di comunicazione.

    ripenso alla scuola, alla mia scuola e non mi ricordo insegnanti capaci di creare le condizioni per un pensiero libero,alcuni assolutamente preparati, alcuni addirittura affascinanti, alcuni penosi (come dappertutto, del resto)
    un pensiero libero fondato sulla capacità di argomentare, di basarsi su nozioni apprese, digerite, fatte proprie.
    Ci istruivano, ci davano i compiti da fare, ci interrogavano, ma non si chiedevano, non si preoccupavano di fornirci, attraverso il loro insegnamento, gli stumenti per comprendere il mondo in cui vivevamo.
    Qualcuno lo faceva, sì.
    Eppure,forse bastava, ai nostri figli basterà?
    Lo facevamo fuori,(di esercitarci nel pensiero libero) nelle discussioni dopo il cineforum, alle assemblee, con gli amici. E ti trovavi a stare con quelli che avevano le tue stesse conoscenze, sensibilità, (cultura?)
    pensiero libero, (ci sembrava, almeno), democratico, progressista, aperto…
    in questo modo ci, mi, sfuggiva, forse, che il mondo, per motivi vari, stava andando da un’altra parte, con esigenze, linguaggi, desideri diversi e noi a rinchiuderci dentro una sorta di gabbia dorata fatta di belle sensazioni, di sensibilità perdute.
    Non so.
    Ma questo mondo non ci è forse sfuggito di mano?
    non ci siamo persi pure noi per strada? da qualche parte , ad inseguire che cosa?
    Mi chiedo che cosa possono apprendere ora, in questo nostro tempo, i ragazzi, cosa la scuola può dare, cosa può offrire di alternativo a gran parte di quello che ci circonda.
    e mi sembra una lotta immane, senza mezzi, senza possibilità, senza ricerca, (a volte, molto spesso) senza capacità/possaibilità di avvicinamento
    E cmq, mi chiedo,noi, che, magari, abbiamo fatto buone scuole, che avevamo ricevuto in dote “quel sapere”, CHE COSA NE ABBIAMO FATTO?
    non siamo noi, la nostra generazione, che ha costruito questa realtà, non sono nostri “quei” figli?

  38. caracaterina ha detto:

    Senso critico, sì, a palate. Senso di colpa, per favore, no.
    Non abbiamo commesso nessun reato (spero), nessun crimine (mi auguro), nessun peccato di cui proprio qui ci si debba confessare. Nè intesi come singoli individui nè intesi come categoria generazionale professionale o sociale. Se non discriminiamo questo, non possiamo discutere e si va in quella confusione che non è pulviscolo ma nebbia collosa. Il tuo commento, bri, è prezioso proprio perchè ci aiuta a distinguere in quali atteggiamenti, socialmente parlando, rimaniamo spesso invischiati e bloccati. Anche qui in rete.
    Un discorso simile al tuo l’ho letto ieri nel blog di alcor, linkato qui accanto. Credo che la sua riflessione partisse da quel mega-pseudo-autodafè che si è tenuto su carmilla e su lipperatura a proposito del libro contro il sessantotto. Non che non conti rivedere storicamente e sociologicamente quelle vicende (e come si fa a non ricordarle parlando di scuola, poi?) ma, se lo si fa seguendo le suggestioni di maniera di certi litblog, partiamo sparati per l’iperuranio intellettualistico degli astratti furori, come ricorda pessimesempio, e il risultato non è la riflessione che poi, pian piano, e con molti forse, si riverbera sul nostro concreto vivere qui e ora, ma un senso di impotenza malinconico che poi è l’altra faccia di certi sensi di onnipotenza narcisistici che avevamo da giovani.
    Invoco la concretezza dei limiti di realtà, s.v.p. :)

  39. Emilia ha detto:

    Noi abbiamo messo su un blog che parli della scuola, ma non solo… Sarebbe bello che partecipassi anche tu, perchè ci sembra che hai cose da dire. Vieni a dare un’occhiata, ti apsettiamo ciao Emilia
    http://fuoriclasse2007.blog.kataweb.it/star_bene_a_scuola/

  40. pessimesempio ha detto:

    Invochi la concretezza… E concretezza sia. Sempre più difficile, questa discussione, difficile perchè devo fare davvero un grosso sforzo mentale per seguire quello che andate/andiamo dicendo e non perdere qualcosa per strada, andando bella mente per la mia mentre magari sto pensando di passeggiare con voi. Così capita che mi fermo magari su una o due frasi che mi colpiscono e su quelle ragiono, velocemente, come dice- se non sbaglio- chi? me lo vado a guardare ( anche questa è una bella scocciatura del blog, questo doversi sempre andare a ricercare chi e che cosa, per chi è abituato alla comodità del libro, da questo punto di vista)- come dice unt-io, perchè una delle caratteristiche di chi scrive in rete, dopo un po’ di tempo, è la velocità del ragionamento e del pensiero, che è altra cosa, mi pare, dall’argomentare di cui parla caracat, almeno di quello che si è sempre praticato nelle scuole. Oggi è questo ragionamento, questo spunto che mi prende, l’argomentare. Perchè ci viene “a faggiuòlo” con un pensiero che ogni tanto appare sul limitar del cervello, del genere, : “ma io, cosa voglia che imparino questi ragazzi che ho qui davanti?” che è poi l’equivalente di “ma io, che cosa devo davvero insegnare a questi ragazzi che ho qui davanti?”. Intendiamoci, io insegno, più o meno, anche quello che il programma mi dice, più o meno ( è il meno, poi, in certi casi la parte più interessante, ma non è detto che sia sempre così, a volte è interessante anche il più), ma so benissimo che dietro a quel programma, per me c’è altro. Nel senso che il programma con i suoi belli autori è funzionale anche a qualcosa di altro, all’apprendimento, forse, di qualche tecnica, non quelle aziendali di cui parla caracat, ma una “tecnica” che permetta di affrontare un discorso, di confrontarsi, per l’appunto, sul piano del ragionamento, su un qualsiasi argomento, con un altra persona. Insomma, accanto al leggere, scrivere e far di conto, oggi io metterei anche ragionare e parlare, ma ho l’impressione che in pochi ancora si sia capito che è questo quello che deve essere fatto. Solo che credo anche ( e già il mio discorso si sta sfilacciando, lo sento)che la “tecnica” da sola non basti e che ci debba essere anche un contenuto, di quell’argomentare lì e non sempre quello su cui i ragazzi vengono invitati ad argomentare per loro ha un senso. Molte cose non ne hanno più, perchè non riescono a parlare più ai ragazzi. Magari tra qualche anno parleranno di nuovo a qualcuno, ma oggi, in questo momento non parlano più.
    Non voglio dire che bisogna eliminare tutto il canone su cui ci siamo basati fino ad ora nè che occorre fare discussioni solo su argomenti accattivanti per ragazzi e ragazze di oggi. Dico però che per discutere e argomentare occorre appassionarsi al discorso da fare e in questo discorso ci deve essere qualcosa che muove dentro di me qualche molla e mi fa pensare che sì, anche io ho qualcosa da dire su questo.
    Anche sulla narrazione mi piacerebbe dire qualcosa, ma non ce la faccio, ci devo riflettere un po’ su, il cervello si attorciglia, dopo un po’. A presto, se si resiste.

  41. pessimesempio ha detto:

    Ah, e poi anche questo granello di polvere nell’occhio mi pare interessante:

    “la scuola è incapace di gestire qualsiasi discussione pulviscolare (non geometrica), quando invece di relazioni pulviscolari e non geometriche viviamo tutti” (sempre da unt-io)

  42. bri ha detto:

    senso critico, dici catacaterina, sì.
    non senso di colpa.
    nessun senso di colpa, ma possiamo, almeno, dire, che, pur avendo cercato di essere coerenti e appassionati e onesti e… non siamo riusciti a dare una spinta “necessaria e sufficiente” a far sì che il mondo, il nostro mondo andasse da un’altra parte?
    non sono molto convinta che fosse questa la realtà che volevamo.
    o forse si?
    obiettività, dunque.
    chiedevo solo quanto di quella cultura che ci ha trasmesso la scuola di un tempo siamo stati capaci di trasferire nel nostro tempo, mi chiedevo anche, se è, poi, vero, che quella scuola era, poi, così capace di trasformare le informazioni in azioni, ci abituava a trasferire il sapere in atti concreti, in discussioni libere, aperte, in visione della realtà e del mondo perspicace, attenta, rigorosa, creativa, appassionata.
    Non mi ricordo molto di questo.
    Mi ricordo rigidità, mi ricordo elitarismo, mi ricordo…
    dicevo, anche, che cmq, abbiamo provato a farlo, da soli, per lo più, in altri contesti e forse era il ’68
    e va bene lo stesso, credo.
    Ci abbiamo provato, alcuni di noi, almeno.
    forse anche i ragazzi di oggi, fanno la stessa cosa, alcuni, o forse no.
    ci provano, ma hanno davanti una società che abbiamo costruito pure noi, se non direttamente, però non opponendoci con abbastanza forza o energia a leggi e mercati e mode e…
    a mio avviso, è importante dar loro degli strumenti di lettura della realtà adeguati ad agire in questa realtà e a trsformarla se, credono, se possono.
    la discussione o il discorso argomentato, credo, possano, forse, costruttivamente, vertere, su quali strumenti siano “necessari e sufficienti”.
    e già questo è impegnativo, ma vale la pena discuterne, credo, anche sommessamente

  43. db ha detto:

    pulviscolare… e se fosse questo il paradigma giusto? guardiamo allo stupore dello studente sull’Odissea: non lo si potrebbe sviluppare “per la tangente”? non cioè stigmatizzarlo, ma elaborarlo.
    i ragazzi di oggi hanno già in qualche modo superato la passività da tv: vanno preferibilmente in rete. perché non cogliere questa opportunità? non sarebbe questo un ’68 permanente? (un ’68 contro la fossilizzazione che viene da tv, famiglia e scuola spesso e contemporaneamente)

  44. Effe ha detto:

    Mi pare che i commenti di Deli del 26/05 ore 7:38 e quello seguente di Caracaterina (ore 11:25), poi chiosati da Unts, centrino il fuoco su un discrimine, che forse era implicito nel post – io non l’avevo visto ma ora mi pare chiaro.
    Il discrimine è la linea di confine – se debba esistere e, laddove sia ammessa, in qual luogo abbia a posizionarsi: più in qua? Più in là? – tra pubblico e privato.
    Non è un argomento del tutto nuovo, mmh?
    Neppure per la rete.
    Si diceva, ma era ieri: il privato è politico (e cioè pubblico, e cioè deve cedere terreno alla collettività, al tessuto sociale)
    A me sembra che ora tutto sia pubblico, tutto sia indagine di mercato, tutto sia manifestazione in piazza.
    Non credo che la scuola debba difendersi da un’invadenza del privato; anzi, forse dovrebbe difendersi dall’invadenza del tutto-pubblico (perché mi pare chiaro: un concetto esiste solo in contrapposizione al suo contrario, e quando tutto ha valore pubblico [politico] nulla ha più valore [pubblico e politico], se mi è permesso giocare con le parentesi)

  45. Deli ha detto:

    Sono un po’ di corsa, quindi non ho sufficiente tempo per seguire lo sviluppo dei commenti, che leggo trasversalmente.
    Rispetto al discorso sull'”argomentazione” a fronte di approcci discorsivi che si fondano su narrazione, aneddoti, esempi. Considero la “dimensione argomentativa” del discorso fondamentale, così come lo è conoscere la “prospettiva” nell’arte.
    Ma… l’argomentazione spesso ha il suo costrutto e le sue conclusioni inevitabili, che inducono risposte prevedibili alle domande meglio articolate che possiamo sviluppare. Per costruire nuove argomentazioni occorre provocare rotture, destabilizzazioni del discorso. Derive associative. discorsi su casi privati, non necessariamente comprensibili nell’argomentazione, o giustificabili.
    Per discorsi nuovi non abbiamo l’argomentazione ancora.
    E sì, concordo con Effe sul discrimine tra pubblico e privato, nello specifico sul discrimine “costruito” tra “formazione formale e formazione non formale e informale” di cui mi occupo da qualche anno. Non si tratta di mischiare, ma di vederne le interrelazioni.
    Buona giornata :-)

  46. pessimesempio ha detto:

    Chissà perchè tutto questo mi fa venire in mente il “camminare domandando” di qualche anno fa. Lo so che non c’entra molto, apparentemente, ma me lo fa venire in mente e un motivo ci sarà…
    Quanto ad destrutturare l’argomentazione, ok, ma occorre essere molto bravi e il rischio – apparente anche questo, ma anche questo, almeno per me, difficilmente verificabile, o forse la paura che c’è dietro, per me- è quello di creare confusione. Sarà che per me è importante anche un certo rigore… A bientot.

  47. aditus ha detto:

    *al bistrot http://www.aditus.splinder.com gran portata di analessi misti dall’aia dell’Oca!!!* (ovvero una retrospettiva di Ocolalia, il ritorno di Ocadabrodo)

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  49. Pingback: Intersezioni « Filosoffessa

  50. caracaterina ha detto:

    Girando a casaccio, stasera mi sono imbattuta in questo post di minimo karma (che è un po’ tanto che non lo leggo – e faccio male)

    http://minimokarma.blogsome.com/2007/05/20/a-proposito-della-mastrocolata-su-don-milani/#more-538

    Ecco: la Mastrocola è proprio quello che hanno in mente tutti quando pensano all’insegnante-tipo. Purtroppo.

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